L'abbaglio del nuovo progetto
Elezione diretta del Premier, una legge non può ignorare l’equilibrio dei ‘contro-poteri’
Nella proposta di Italia viva ci si concentra soltanto sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, minando i poteri del Parlamento ed esponendo il Paese al rischio di collasso
Politica - di Salvatore Curreri
Secondo la senatrice Boschi la riforma costituzionale del 2016 prevedeva l’elezione diretta del Premier (v. Repubblica, 27 agosto, p. 8). Non è così. Anzi, quella riforma si piccava di non modificare la parte della Costituzione (artt. 92-94) relativa alla nomina del Governo e al rapporto di fiducia con il Parlamento.
Piuttosto l’obiettivo della cosiddetta governabilità era perseguito percorrendo opportunamente altre strade: la riforma del Senato, non più camera politica; la già approvata modifica della legge elettorale (cosiddetto Italicum, mai entrato in vigore); la previsione di una “corsia preferenziale” per i disegni di legge attuativi del programma di governo, per scoraggiare l’abuso dei decreti legge; il rafforzamento dei contro-poteri, come lo statuto dell’opposizione parlamentare, l’esame obbligatorio delle proposte di legge d’iniziativa popolare, la riduzione del quorum per la validità dei referendum abrogativi, l’introduzione di referendum propositivi e d’indirizzo.
Ricordo tutto questo non per riaprire vecchie ferite ma per dimostrare che il tema della governabilità del nostro paese è molto più ampio e complesso della semplice elezione diretta del presidente del Consiglio, non foss’altro perché al rafforzamento del suo potere dovrebbe sempre accompagnarsi quello dei cosiddetti contro-poteri, affinché il sistema di governo si mantenga in equilibrio, senza sbilanciamenti. Invece, leggendo la proposta di legge di revisione costituzionale depositata lo scorso 1° agosto (A.S. n. 830), sembrerebbe che il sen. Renzi, e con lui il suo partito, si sia dimenticato di tutto ciò, concentrandosi esclusivamente sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Questi sarebbe eletto “contestualmente alle elezioni della Camera”; spetterebbe a lui – anziché al Presidente della Repubblica – la nomina e – novità – la revoca dei ministri. Forte dell’investitura popolare ricevuta, si presenterebbe entro dieci giorni alle Camere non per ottenerne la fiducia ma solo “per illustrare le linee programmatiche”.
Conseguentemente, egli non sarebbe più un “primo fra pari” rispetto agli altri ministri ma “l’organo di vertice del Governo”, cui la legge dovrebbe riservare atti di sua specifica competenza. Infine, proprio perché eletto direttamente, non potrebbe essere sostituito in corso di legislatura per cui in caso di sue dimissioni (anche a seguito di mozione di sfiducia), morte o impedimento permanente il Presidente della Repubblica sarebbe obbligato a sciogliere le Camere. A fronte di tale progetto, si potrebbe cominciare a replicare che non si capisce perché si continui a definire presidente del Consiglio chi, in forza dei poteri conferiti, sarebbe meglio qualificare come Primo ministro o presidente del Governo, come avviene rispettivamente in Francia e Spagna. Forse è l’omaggio che il vizio rende alla virtù…
Al di là di tali questioni nominalistiche (epperò nomina sunt consequentia rerum) il disegno di legge in questione presenta diverse criticità. Innanzi tutto pare davvero offensiva per la dignità del Parlamento la previsione per cui, in caso di voto contrario su una questione di fiducia, il Governo può chiedere una seconda deliberazione e solo se questa è nuovamente contraria, il Presidente del Consiglio deve dimettersi. Come dire: per costringere il Governo a dimettersi occorreranno non uno ma due voti di sfiducia, con l’ovvia conseguenza che in tal modo il Governo, ponendo la questione di fiducia, non avrà nulla da perdere perché, anche in caso di voto contrario, non è più tenuto – come accaduto (v. Prodi 1998 e 2008) – a rassegnare le dimissioni. Un evidente squilibrio nel rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo, a tutto vantaggio di quest’ultimo.
In secondo luogo, tale modello di governo – chiaramente ispirato a quello vigente nei Comuni e nelle Regioni dove già eleggiamo direttamente il Sindaco e il presidente di Regione – ne riproduce la rigidità per cui in caso di dimissioni, morte o impedimento permanente del presidente del Consiglio oppure di sfiducia da parte di una delle Camere si ha lo scioglimento anticipato della legislatura. Questo modello ha certamente in sé una sua coerenza: se il presidente del Consiglio – come il sindaco o il presidente di Regione – è eletto direttamente dai cittadini, saranno questi – e non il Parlamento – ad eleggerne uno nuovo in caso di sue dimissioni.
Tant’è che, rispetto alle prime bozze circolate, il progetto di legge Renzi alfine depositato non contiene più l’ipotesi della sfiducia costruttiva (non a caso non prevista in comuni e regioni), che sarebbe stata palesemente contradditoria perché avrebbe consentito al Parlamento di contraddire la volontà degli elettori, magari con un radicale “ribaltone”. Ma è proprio tale rigidità il difetto principale di tale modello. Se essa può essere ammissibile a livello comunale e regionale, non lo è certo a livello nazionale dove più volte le forze politiche hanno ritenuto opportuno per l’interesse nazionale, in caso di crisi di governo, trovare accordi che evitassero traumatiche interruzioni di legislatura, specie in situazioni d’emergenza, come fu la crisi finanziaria del 2011 (governo Monti) e, più di recente, la pandemia da Covid-19 (governo Draghi).
In tal senso, ritenere che gli effetti di una crisi di governo nazionale siano eguali a quelle comunali o regionali è frutto, com’è stato efficacemente detto, di una semplicistica parificazione tra realtà istituzionali diversissime: per i poteri che esercitano, per i compiti che svolgono, per il peso costituzionale che esprimono (Parrini). Si pensi solamente a quale sarebbe oggi la situazione e il destino del nostro Paese se ad ogni crisi di governo per dimissioni del presidente del Consiglio fosse seguito lo scioglimento del Parlamento. Uno scenario da brividi, non paragonabile a qualunque democrazia, europea e no.
Infine la proposta Renzi non si fa carico, a latere, di chiarire attraverso quale legge elettorale intenda garantire al presidente del Consiglio direttamente eletto la maggioranza in Parlamento, assolutamente necessaria per realizzare l’indirizzo politico del Governo, visto che il nostro rimarrebbe comunque un sistema parlamentare. Se a tutto questo aggiungiamo, come detto all’inizio, che la proposta di legge Renzi non si cura minimamente di rafforzare i contro-poteri, a cominciare dal ruolo del Parlamento, già ora succube del potere normativo del Governo, così da mantenere in equilibrio la forma di governo parlamentare, si potrebbe dire, con Montale, che essa è utile ad un solo scopo: farci capire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.