Il conflitto Russia-Ucraina
Dario Fabbri sull’Ucraina: “Guerra in stallo, entro novembre ci può essere la tregua”
«La guerra non può durare in eterno. Complice l’inverno, è probabile che il conflitto possa lasciar spazio al negoziato»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Dallo stallo ucraino all’Africa in fiamme. L’Unità ne discute con Dario Fabbri, direttore di Domino, tra i più autorevoli analisti italiani di politica estera.
La guerra in Ucraina, come fotografarne il momento?
C’è uno stallo evidente nelle ostilità, a parte qualche rosicchiamento di territorio qua e là soprattutto per mano ucraina, ma nessuna svolta. E questo potrebbe facilitare, ma il condizionale è d’obbligo, una sorta di negoziato successivo, qualora si arrivasse anche alla fine della controffensiva che più o meno potrebbe essere a ottobre, perché da quelle parti l’inverno ancora esiste e il terreno potrebbe diventare ancor più impraticabile per il prosieguo di una controffensiva. Tra ottobre e novembre si potrebbe immaginare, ma anche qui il condizionale è molto d’obbligo, una sorta di negoziato, che però è tutto da inventare.
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Vale a dire?
Nel senso che non se ne conoscono i termini. Gli ucraini non sono d’accordo, gli americani non sanno da che parte prenderli, i russi ci stanno, sempre che per loro ciò rappresenti una vittoria. Il che significa che non cederanno tutti i territori che hanno occupato, anzi se li terranno quasi tutti, nei loro disegni, e intanto si siedono a trattare. È per questo che è molto complicato. I fatti sul terreno suggerirebbero il negoziato, ma nessuno ti sa dire quali ne siano o dovrebbero esserne i termini, se non la consunzione della guerra. La guerra sul campo non va né avanti né indietro. La logica dice: sediamoci a discutere. Quali possanno essere i termini della discussione, questo è veramente un mistero.
Certe narrazioni che raccontano di uno Zelensky “trattativista” e di un Biden che tutto vorrebbe meno che trovarsi ancora alle prese con la guerra in campagna presidenziale, sono una forzatura giornalistica o c’è del vero?
C’è della sostanza. L’intervento di Zelensky per quanto concerne l’apertura ad una soluzione politica sulla Crimea, non è casuale. Poi parzialmente ritrattata da Podolyak, ma questo ci sta, fa parte del gioco. Certi messaggi si lanciano anzitutto all’opinione pubblica ucraina, è un ballon d’essai, vediamo l’effetto che fa, perché finora Zelensky e i suoi hanno spiegato – legittimamente, intendiamoci – all’opinione pubblica ucraina che tutto dovrà tornare a Kiev: anche la Crimea. Quindi la butti lì. Ritratti, ma l’hai detto. Certamente è un’apertura. Tutti lo sanno, è il segreto di pulcinella: la Crimea non tornerà, salvo miracoli, all’Ucraina. È difficile immaginarlo. Forse con un’amministrazione diversa in Russia… ma questo non è alle viste. Ad oggi è impossibile credere che la Crimea torni all’Ucraina.
In questo caso, però, l’intervento di Zelensky è interessante perché è già entrato in una modalità di pseudo negoziato.
Nel momento in cui dici “ti lascio quello che è già tuo”, ne stai parlando. Per questo dico che i termini sono ancora molto fumosi ma al tempo stesso che ci siano segnali. E l’uscita di Zelensky va intesa come tale, un segnale, anche se quelli meno convinti del negoziato sono proprio gli ucraini.
Perché?
Per ragioni evidenti. La guerra l’hanno subita, i massacri li hanno subiti, il territorio l’hanno perso.
E Biden?
Gli americani sono per il cessate-il-fuoco. O almeno per un inizio di negoziato. Perché Biden ha le sue priorità elettorali, perché la guerra va avanti ormai da troppo tempo per gli americani, ed è una eccessiva distrazione. Ogni giorno che passa gli americani dicono “sì, va bene, noi siamo qui a difendere, giustamente, le prerogative e i diritti dell’Ucraina aggredita”, ma intanto che succede dall’altra parte del mondo, quella a loro più vicina, il Pacifico? Più la guerra va avanti più perdiamo il focus. E allo stesso tempo hanno capito, e la controffensiva sta a dimostrarlo, che senza un intervento diretto della Nato non ci sarà una sconfitta definitiva sul campo della Russia. Questo non accadrà. Tutto vogliono gli americani tranne che fare una guerra diretta alla Russia, una guerra nucleare peraltro. Per tutte queste ragioni, Biden e i suoi continuano a dire a Zelensky “pensiamoci, in autunno, in inverno, pensiamo ad un cessate-il-fuoco, o almeno ad abbozzarlo”.
Passando ad un altro scenario non meno infuocato, anche se colpevolmente ignorato o comunque sottovalutato dai grandi media: l’Africa. Il numero di Domino in uscita martedì prossimo s’intitola “Africa addio”. Addio da parte di chi e che cosa sta avvenendo in quel continente così importante da tanti punti di vista?
Addio per noi occidentali. Noi stiamo perdendo chiaramente l’Africa. Pensiamo ai golpe che si sono succeduti in questi anni nel Sahel, alcuni orditi, altri cavalcati dalla Russia tramite il Gruppo Wagner. Pensiamo all’ultimo, in Niger, nel quale la Russia forse è arrivata successivamente ma ha trovato subito terreno fertile. I golpisti sono anti occidentali, anti francesi. Aggiungiamo a questo la penetrazione, non solo economica, della Cina da molti anni nel continente, e quella della Turchia. Non dimentichiamoci che l’Italia è aggrappata a uno strapuntino in Tripolitania, dove comanda la Turchia con i soldi del Qatar. Mentre in Cirenaica comandano un po’ i russi, un po’ i sauditi, gli emiratini, gli egiziani. Tutto questo per dire che un continente così importante per noi, è da molto tempo non più il giardino di casa dell’Occidente, dell’Europa, ma è controllato da altri. Vale la pena ricordare che gli effetti sulle nostre vite sono diretti. Non parliamo di un continente che sta su Marte. Non si tratta soltanto delle rotte dei migranti, questo è sotto gli occhi di tutti, ma anche dell’approvvigionamento energetico, specie adesso che l’Europa occidentale vuole sganciarsi dal gas della Russia. Il gas dell’Algeria, il gas egiziano, diventano sempre più importanti per noi. E l’Egitto è sì un paese vicino agli Stati Uniti ma che adesso guarda anche alla Russia: peraltro parliamo di un gigante demografico. Mettiamoci il Sudafrica, paese questo sì lontano geograficamente da noi, il più sviluppato del continente africano sul piano industriale e commerciale, che è uno dei perni, la “s”, dei Brics e che ha dimostrato nella guerra d’Ucraina, di essere fortemente anti occidentale. Gli americani li hanno accusati di consegnare armi ai russi, hanno svolto, questo è ufficiale, una esercitazione militare con i russi. Parliamo di un continente intero che ci sta volgendo le spalle, per questo titoliamo “Africa addio”.
Ha fatto riferimento ai Brics. Come va letto l’allargamento significativo, non solo sul piano quantitativo, di questo sistema?
L’allargamento ha un valore soprattutto simbolico. Ma i simboli contano molto nelle storie degli uomini. Non dobbiamo immaginare i Brics come qualcosa che assomiglia a un fronte compatto, come una specie di Lega che vuol combattere l’Occidente con le armi in pugno. Non è questo. I Brics, che cambieranno acronimo quando a gennaio accoglieranno i nuovi membri, sono una specie di forum dalle maglie molto larghe, composto anche di nemici, sia strategici che tattici. Pensiamo a indiani e cinesi, nemici strategici ma che sono dentro i Brics. Pensiamo anche a Brasile e Argentina come possiamo metterci russi e cinesi, che adesso vanno a braccetto ma che amici non lo sono mai stati. I simboli contano. Nel momento in cui in piena guerra d’Ucraina, dopo che ci siamo raccontati che la Russia è isolata, che l’Occidente sta trionfando, ci sono paesi – e che paesi, non proprio gli ultimi del globo – che in piena guerra aderiscono formalmente allo schema anti occidentale. Perché poi, in definitiva, i Brics questo sono: uno schema anti occidentale, quei paesi sono accomunati essenzialmente da questo. Paesi di grande importanza: l’Egitto, un gigante demografico. L’Etiopia, un impero senza mezzi. Gli etiopi hanno da sempre una idea imperiale di sé, da quelle parti sono i diversi, i cristiano ortodossi, antichi e lontani. Un paese decisivo e non solo nelle vicende africane. La stessa Arabia Saudita. Questo per dire che ci sono paesi che hanno anche eccellenti rapporti con l’Occidente, come l’India, e a suo modo anche l’Arabia Saudita e la stessa Etiopia, e tuttavia in piena guerra non hanno nessuna paura a dire: “noi entriamo nello schema anti occidentale e lo facciamo con grande convinzione”. È questo il vero passaggio, più della de-dollarizzazione, impossibile in questa fase. I Brics non intendono fare una guerra all’America, ma i simboli contano e molto.
In questo tour geopolitico del mondo, manca l’Europa.
È l’assenza perenne. Prendiamo l’Africa. I paesi europei sono andati in maniera molto sparsa sulle questioni africane. Spesso in grande competizione. Pensiamo solo alla vicenda libica, che ci ha riguardato, come Italia, molto da vicino, nel 2011. L’intervento franco-britannico, che vide poi l’aiuto degli americani, era un intervento non esattamente filo-italiano, e ci teniamo larghi. L’idea all’epoca era di sostituire un regime, quello di Gheddafi, con un altro che non fosse filo italiano, come era quello di Gheddafi, per quanto impresentabile, ma filo francese. Così nel Sahel. Quando l’Italia, durante la fase dell’operazione Barkhane, proponeva il suo aiuto alla Francia, c’è stato detto “no, grazie”. Per poi venircelo a chiedere anni dopo quando le cose si sono messe molto male per i francesi, in ritirata dal Sahel. I paesi europei sono sempre gli stessi. Non agiscono mai all’unisono, anzi spesso e volentieri agiscono gli uni contro gli altri e i risultati si vedono.