Il dramma delle carceri
Come ridurre i suicidi in carcere, le soluzioni
La soluzione sarebbe la destituzione del penalismo carcerario e meno potere giudiziario che, continua a incarcerare mentre è attivo nella riaffermazione della propria autonomia
Giustizia - di Iuri Maria Prado
Scrive Gian Carlo Caselli sulla Stampa di ieri che il carcere “punisce troppo o troppo poco”. Evitiamo di replicare (tanto a che serve?) che il carcere non dovrebbe punire né tanto né poco, se per punizione intendiamo qualcosa che si aggiunge alla pura e semplice – e già spesso ingiustificata – privazione della libertà. Repliche come questa stanno solo nella testa di qualche amico dei mafiosi e dei corrotti, insomma esprimono la tigna del “garantismo farlocco” più volte denunciato dalla prosa chiomata dell’ex magistrato torinese e dalla maggioranza dei suoi colleghi intabarrati di nero.
Di fatto, ma figurarsi se l’argomento buca le alate certezze dell’editorialismo togato, il carattere gratuitamente afflittivo del carcere non riguarda neppure la frequentissima inutilità della detenzione, tanto per capirsi il fatto che la privazione della libertà è disposta o mantenuta quando non occorrerebbe o, peggio, quando nemmeno essa è legittima: piuttosto, la contrarietà del carcere alle ragioni di umanità e costituzionali rimonta a situazioni che con la pura e semplice privazione della libertà non c’entrano proprio nulla e semmai – incivilmente e illegalmente – vi si aggiungono, vale a dire la mancanza di cure e igiene, il sovraffollamento, la sessualità coartata e l’omosessualità coatta, la sistematicità degli abusi, l’abbandono dei detenuti a un destino di esclusiva emarginazione e involuzione nella recidiva.
A tacere di questa inemendabile vergogna, la tortura nella tortura, rappresentata dal regime aguzzino del 41bis, la gemma delle politiche sicuritarie che l’orgoglio giudiziario ostenta ad ammonizione e superamento del regime precedente: quello (testuale) che garantiva ai criminali soggiorni penitenziari da “Grand Hotel”. Quando però la somma di suicidi fa antipatico capolino dagli orli del tappeto di indifferenza steso sulla voragine carceraria, quando sussulta il coperchio della segregazione imposto sul pentolone della galera italiana, smosso da troppa umanità in fermentazione che decide di uscirne come può, e cioè facendola finita, allora piove qualche intervento agostano che rumina le soluzioni e denuncia le responsabilità.
Quali soluzioni? Tutte, ma non la destituzione del penalismo carcerario. Quali responsabilità? Quelle di tutti, ma non del potere giudiziario che continua a incarcerare mentre è attivo nella riaffermazione della propria autonomia e indipendenza, innanzitutto autonomia e indipendenza, appunto, da qualsiasi responsabilità per lo stato delle cose carcerarie. Richiama il dovere di tutti, questo sacerdozio del carcere che deve punire fino a poco prima che i detenuti si ammazzino ma senza esagerare nelle concessioni, vedi mai che si finisca per punire troppo poco.
E così l’appello è per il governo, per il ministero della Giustizia, per l’amministrazione penitenziaria, per i Comuni, per le Regioni, per i garanti comunali e i garanti regionali, per i SerT, per le famiglie, per la scuola, per l’Imprenditoria, per tutti: non per la magistratura, che evidentemente non partecipa in nessun modo al sistema che alimenta la discarica carceraria e semmai lo patisce, ne soffre, vi assiste con la più ferma deplorazione, tanto che ogni giorno, ma proprio sempre, e davvero non se ne può più di sentirli, i magistrati fanno girotondi e assumono iniziative a tutela dei diritti dei detenuti e per il miglioramento delle condizioni di vita nelle prigioni. “È disposta l’Italia”, domanda Gian Carlo Caselli, “a far cambiare narrazione e legislatura in materia di penalità e sicurezza?”. L’Italia politica e giornalistica, salve minuscole eccezioni, no. L’Italia giudiziaria nemmeno: ma senza eccezioni.