Il presidente onorario Iussp
Intervista a Massimo Livi Bacci: “Soccorrere i migranti era la strada giusta, ma l’Ue è diventata cinica”
«Il governo Letta fu coraggioso nell’avviare la missione Mare Nostrum nel 2013, che meschini calcoli politici non hanno saputo e voluto continuare. Andava rafforzata» sostiene il demografo
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Le migrazioni inarrestabili, il fallimento delle politiche emergenziali. L’Unità ne discute con il professor Massimo Livi Bacci. Docente di Demografia alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze, dal 1973 al 1993, Livi Bacci è stato segretario generale e presidente della International Union for the Scientific Study of Population (Iussp), società scientifica di studi demografici nota in tutto il mondo, di cui è poi divenuto presidente onorario. Nel suo campo, un’autorità assoluta.
Il Mediterraneo, un immenso cimitero marittimo. I morti di stenti nel deserto alla frontiera tra Tunisia e Libia. Professor Livi Bacci, la storia si ripete nella sua tragica ripetitività?
Sì e no: le motivazioni che spingono i migranti a rischiare la vita non mutano nel tempo, ma cambiano le circostanze. Oggi, assai più di ieri, e assai più che nel lontano passato, gli stati hanno rafforzato confini e frontiere, e una migrazione “irregolare” diventa sempre più difficile e rischiosa per chi la intraprende. E sono sempre di più coloro che ci provano, spinti dalle disuguaglianze economiche e dai conflitti tra stati. Solo una “alta politica” internazionale, un’intesa umanitaria tra stati, può porre rimedio a uno stato di cose intollerabile.
Intanto l’Europa continua a seguire la strada del “modello turco”
Il patto tra Unione Europea e Turchia del 2016 è un caso emblematico dell’intreccio tra migrazione e rapporti tra Stati. Nel 2014 e 2015, la guerra civile in Siria sospinse milioni di profughi fuori del paese verso gli stati confinanti, e attraverso la Grecia e per la rotta Balcanica, verso il cuore dell’Europa. La Turchia aprì la porta ai profughi, contando anche sulla brevità del conflitto. Nel 2015, più di un milione di rifugiati – che oltre ai Siriani contavano Iracheni, Afghani, Pakistani e altre nazionalità – entrarono in Europa, quasi 900mila attraverso la Grecia. La Ue era divisa, (come lo è adesso), la gestione di questo tipo di emergenze essendo responsabilità dei singoli stati, senza alcun coordinamento e priva di meccanismi solidaristici di riparto di profughi tra paesi. La Germania, con un atto di coraggiosa apertura, accolse più di un milione di profughi, disponendo forti investimenti destinati alla loro integrazione. Nel marzo del 2016 venne suggellato un patto con la Turchia che accettò di chiudere le porte (di uscita) ai rifugiati accolti nel suo territorio, garantendo loro il rispetto dei diritti basilari. In cambio la Ue s’impegnò a erogare un contributo di 6 miliardi di euro in sei anni, attraverso la Eu Facility for Refugees in Turkey, destinati a fornire assistenza umanitaria, istruzione, salute, infrastrutture locali e sostegno socio economico ai rifugiati (che a fine 2022 sono 3,7 milioni). In sostanza: la Ue delega alla Turchia la funzione dell’accoglienza dei profughi, dietro pagamento di un significativo prezzo e, in pratica, “esternalizza” i propri confini. Sotto il profilo meramente quantitativo, l’accordo ha funzionato, sbarrando la strada ai flussi che transitano per la Turchia, ridotti dal milione del 2015 a poche decine di migliaia. Per altri aspetti l’accordo presenta numerose debolezze, sul piano del rispetto dei diritti umani, della qualità dell’accoglienza, e degli effetti di lungo periodo che la presenza di quasi quattro milioni di rifugiati ha sull’equilibrio del paese ospitante. Soprattutto a causa del modesto flusso di rientri in Siria, dove la situazione è lontana dall’essere “normalizzata”. Sotto il profilo dei rapporti con l’Unione Europea, è evidente che la Turchia possiede una forte arma di pressione, se non vogliamo usare il termine “ricatto”, sconveniente per qualificare i rapporti tra paesi alleati. Dovesse venire meno la funzione di diga, che la Turchia ha assunto, si creerebbe rapidamente una situazione di crisi simile a quella del 2015, in un’Europa ancora profondamente divisa sulle politiche migratorie. Se ne è avuta una prova all’inizio del 2020, quando i confini della Turchia verso la Grecia vennero riaperti temporaneamente, a seguito di una controversia circa la modalità degli esborsi della Ue. La crisi fu allora rapidamente sanata, il patto è stato rinnovato ma resta la sua genetica debolezza.
Variano le coloriture politiche dei governi, in Italia e in Europa, ma la linea, sul fronte delle migrazioni, resta la stessa: esternalizzare le frontiere. Più che una strategia, pare una ossessione.
Il Patto con la Turchia non è dissimile da analoghi tentativi di altri paesi Europei. L’accordo Italia-Libia del 2017, che riprendeva la sostanza di analoghi accordi del 2008 e del 2012, riguarda la cooperazione nel campo dello sviluppo ma anche il “contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani” e altro ancora. Rinnovato nel 2020 e nel 2023, nella sostanza affida alla Libia il compito di trattenere sul suo suolo rifugiati, profughi e migranti economici “irregolari”, e, nel caso questi prendano il mare, di contrastarne la navigazione riportandoli nei centri di detenzione libici. Un accordo fortemente criticato e avversato per l’evidente violazione del diritto dei profughi a richiedere asilo politico e, in ogni caso, di non essere respinti e costretti in un paese noto per la violazione dei diritti umani basilari, fuori del controllo, tra l’altro, delle organizzazioni internazionali. Anche in questo caso c’è una “esternalizzazione” dei confini dell’Italia. Accordo analogo (che rinnova precedenti intese) è quello tra Marocco e Spagna, entrato in vigore nel 2022, diretto, anch’esso, a combattere il crimine organizzato, il traffico di essere umani e soprattutto la migrazione irregolare. L’Unione Europea ha un accordo simile con il Niger, paese di transito di ingenti flussi migratori, il cui scopo centrale è quello del controllo dei loro movimenti. Non sappiamo quale sarà la sorte dell’accordo, data la grave crisi del paese dopo il golpe dello scorso luglio… Nella stessa direzione vanno le attuali trattative dell’Italia e della Ue con la Tunisia, riluttante a fare la guardia di frontiera senza contropartite più sostanziose di quelle offerte. La debolezza delle politiche di dilatazione dei confini, oltre quelli ufficialmente riconosciuti, è evidente. Soprattutto quando non riguardino paesi con robusti legami politici, ordinamenti rispettosi dei diritti fondamentali, e non siano inserite in comprensivi accordi di cooperazione allo sviluppo. Fondamentalmente, queste politiche criminalizzano il migrante e la migrazione, ostacolano le richieste di asilo e di protezione internazionale, pongono i migranti “respinti” alla frontiera alla mercé di paesi molto poveri e con scarsa considerazione per i diritti fondamentali, sono materia di controversie e di veri e propri ricatti.
Da più parti si chiede una nuova missione di ricerca e soccorso in mare, una nuova Mare Nostrum, magari europea.
Il governo Letta fu coraggioso nell’ avviare l’operazione Mare Nostrum nel 2013, che meschini calcoli politici di altri paesi Europei non hanno saputo, e voluto continuare, e rafforzare. Il blando sostegno che la Ue incontra nell’opinione pubblica europea deriva anche dalla mancanza di coraggio ideale in una questione così tragica, che dovrebbe stare al primo posto tra le priorità dell’Europa. Far sì che migliaia di vite non vengano perdute, ogni anno, in un mare percorso in lungo e largo da miriadi di navi e imbarcazioni, sorvegliati da milioni di occhi elettronici, sorvolati da aerei e satelliti. C’è un profondo cinismo nella politica migratoria della Ue che certo non scalda i cuori!
Più vite di migranti vengono perdute nel Mediterraneo di quante ne persero in mare i milioni di emigrati irlandesi che fuggirono dalla Grande Fame negli anni 40 e 50 dell’Ottocento, verso l’America. A bordo di precari velieri, chiamati “coffin ships” (navi-bare) per i rischi naufragi e per gli stenti e le malattie sofferti nella navigazione.
Nel mondo sono censiti 55 conflitti. Guerre e cambiamenti climatici sono alcuni dei più massivi “push factor” dello spostamento di milioni di persone. Ma l’Europa continua a sposare una logica “emergenzialista”.
Bisogna essere realisti: l’Europa è “circondata” da regioni sconvolte da conflitti, dall’Ucraina alla Siria, dal Sudan e il Corno d’Africa al golfo di Guinea; da regimi dittatoriali e fragili. È giusto stare all’erta e proteggersi in caso di (normali!) emergenze, come quelle causate dalle guerre di Iugoslavia, negli anni 90; dalla guerra civile in Siria negli anni 10 di questo secolo; da quella Ucraina attuale, che hanno provocato milioni e milioni di profughi. Cosa avverrebbe domani se crollasse l’Egitto – per crisi politica, economica o rivoluzione interna? L’Egitto che ha più di 100 milioni di abitanti, a ridosso del Mar Mediterraneo?
Professor Livi Bacci, che mondo è visto da un demografo?
È un mondo in frenetico movimento: sono nato quando c’erano poco più di due miliardi di abitanti, contro gli otto di oggi; ho visitato Città del Messico nel 1960, quando la metropoli contava meno di tre milioni di abitanti contro i venticinque di oggi e nel frattempo la longevità nei paesi poveri si è quasi raddoppiata. I miei figli, alla nascita, avevano quasi un milione di bambini coetanei e oggi ne avrebbero meno di 400mila; le mie coetanee sono più numerose delle bambine con meno di un anno, ovvero le bisnonne e potenziali bisnonne sono più numerose delle loro bisnipoti. La parte nord della metropoli di Giakarta sprofonda di 25 centimetri all’anno, e la capitale verrà spostata da Giava al Borneo… i ghiacci dell’Antartide si sciolgono a velocità imprevista. Vedo tutto questo dal quartiere fiorentino nel quale sono nato, dove nulla è cambiato, perfino lo stadio, quasi centenario, è lo stesso, e una tranvia tolta negli anni 60 per far posto ai “moderni” autobus, viene adesso ricostruita… Insomma, stando fermo e in luoghi immutati, vedo il mondo attorno a me girare come una trottola.