Il Pci e l’Unità, due facce di un’unica grande storia: non può essere resuscitata ma ha tanto da insegnare
Editoriali - di Paolo Franchi
È vero, l’Unità, quando scomparve, non era più l’ “organo del Pci”, ma il “giornale fondato da Antonio Gramsci”: per molti motivi, ma prima di tutto perché il Pci, dal congresso di Rimini del febbraio 1991, non esisteva più. Ed è vero che i redattori dell’Unità, presenti al congresso, celebrarono l’evento con una festa d’addio cui furono invitati i giornalisti di tutte le testate, compreso il sottoscritto, allora inviato del Corriere, che non vi partecipò, nonostante fosse favorevole, seppure con mille riserve, alla svolta di Achille Occhetto. E, se è per questo, è vero anche che l’Unità fin dagli anni di Togliatti era stata qualcosa, anzi, molto di più e di diverso, non solo per tiratura, dagli altri quotidiani di partito, e ancor più lo era diventata nella seconda metà degli anni Ottanta, quelli della lunga agonia del vecchio Pci: quando, sull’inserto satirico Tango, Sergio Staino sbertucciò Alessandro Natta, Bettino Craxi trovò il modo di segnalare a un giornalista “borghese” al suo seguito ad Hammamet che mai e poi mai l’Avanti avrebbe fatto qualcosa di simile con lui. Tutto vero.
Ma resta il fatto che la storia dell’Unità e la storia del Pci sono in larga misura, la medesima storia. Vuol dire che, se torna l’Unità, in qualche modo dovrebbe tornare pure il Pci? Neanche Piero Sansonetti, che adora le provocazioni intellettuali, avrebbe, credo, il coraggio di metterla in questi termini. Però la domanda un suo senso ce l’ha.
Un quotidiano che si fregia di un nome simile non può non chiedersi quanto meno se la lunga storia del partito “di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”, rimossa anche da tanti dei suoi pallidi eredi, abbia o no ancora qualcosa, o molto, da insegnare.
Anticipo la mia personalissima opinione, l’opinione di uno che nella Fgci e poi nella stampa comunista (Rinascita, Paese Sera, ancora Rinascita) ha trascorso la giovinezza, e dal Pci se ne è andato, uscendo dalla comune, nel 1981, perché non condivideva nulla o quasi della politica dell’ultimo Berlinguer, quello, guarda caso, santificato post mortem (anche se questa ingiuria proprio non se lo meritava) dai Cinque Stelle, perché mi sembrava solo propaganda. Nessuno può seriamente pensare di resuscitare il Pci. Ma la sua storia – intendo dire il nocciolo duro della sua storia – ha parecchio da dire. Almeno a chi a sinistra è convinto, alla faccia di un’antipolitica che, alla fine della fiera, ci ha regalato i post missini alla guida del Paese, che senza politica non si va da nessuna parte. Che, senza un partito di uomini e donne – in primo luogo di lavoratori e di lavoratrici – in carne e ossa, politica a sinistra non se ne fa. Che politica vera non se ne possa fare, e partiti per farla non se ne possano costruire, se non si è capaci di combinare, facendosi capire da quelle che una volta chiamavamo “le masse popolari”, quelle che, sempre una volta, chiamavamo la strategia e la tattica. Cioè la capacità di prospettare, Giorgio La Pira avrebbe detto: spes contra spem, un futuro diverso, e nello stesso tempo di praticare un realismo così realistico da sembrare talvolta alle anime belle puro cinismo. Chi trovasse inconciliabili le due cose, potrebbe utilmente rileggere il discorso di Palmiro Togliatti retour de Moscou (Napoli, cinema Modernissimo, 11 aprile 1944): è passato alla storia perché segnò la caduta della pregiudiziale anti monarchica in nome dell’unità nella lotta contro il nazifascismo (la “bomba Ercoli”, disse Pietro Nenni), ma è pure l’atto di nascita del “partito nuovo”. E se in quella decisiva scelta politica c’è stato, come sicuramente c’è stato, anche lo zampino di Stalin, non c’è che da rallegrarsene. Dopo tutto, all’epoca, per i soldati americani che scorrazzavano per Napoli, Baffone era ancora uncle Joe, lo zio Peppino: “Di Stalingrado la leggenda vola”.
2) Molti anni fa stavo chiacchierando di cose simili con Lucio Caracciolo, quando il piccolo Giuliano gli chiese: “Papà, cosa era il Pci?”. E Lucio rispose: “Un posto bellissimo dove stavano papà e zio Paolo”. Non sono, lo giuro, così nostalgico, o così conservatore, o così reazionario, da voler ammannire ai lettori più giovani dell’Unità finalmente tornata tra noi la stessa risposta (peraltro, nella sua autoironia, persino veritiera) che Caracciolo diede al figlioletto. Non è stato “un posto bellissimo”, il Pci. È stato, con tutti i suoi limiti, un grande partito popolare: casa, chiesa, scuola, famiglia per i milioni e milioni di italiani che, dalla Liberazione al fatidico 1989, ne hanno fatto parte, per tutta la vita o anche solo per qualche anno: altro che una setta votata all’attesa dell’ora x. È stato una comunità di destino, al cui interno, dal mitico secondo piano delle Botteghe Oscure alla sezione più sperduta, hanno convissuto, a tratti serenamente, a tratti no, uomini e donne che sotto ogni altro cielo molto difficilmente si sarebbero accomunati. Tipi diversi, per dire, come Paolo Bufalini e Pietro Ingrao.
È stato, soprattutto, un inaudito concentrato di politica, “alta”, ma pure, diciamo così, “diffusa”, e di organizzazione il più possibile accurata, che a molti di noi allora ragazzi sembrava ottusa burocrazia, ma era invece un modo di stare al mondo e di saper interloquire con il prossimo. Per dire. Ricordo commosso Pio La Torre, figlio di braccianti, uomo della destra del partito, per il suo coraggioso e antiretorico impegno nella lotta contro la mafia che pagò con la vita. Ma mi commuovo anche ricordandolo quando ci spiegava: “Che cosa ci ha insegnato Togliatti? A fare politica”. E pure quando, discutendo su come meglio organizzare la conferenza dei giovani comunisti meridionali alla Fiera agrumaria di Reggio Calabria, mi raccomandava di prendere le misure adeguate per evitare che i delegati si disperdessero per trattorie durante la pausa pranzo: “Attorno alla Fiera c’è del verde, bisogna organizzare una colazione al sacco per i compagni: panini, frutta, e anche una bella birretta”.
3) Tanta politica, dunque, e tanta capacità di “aderire ad ogni piega della società”: ma a che scopo, visto che la Prima Repubblica (Iddio la abbia in gloria) teneva fuori i missini dall’area democratica e i comunisti dall’area di governo? Un socialista di lucidissimo ingegno, Luciano Cafagna, ha parlato, in proposito, di “bulimia togliattiana”. Per dire che, facendo politica dall’alto e dal basso più di ogni altro partito, il Pci metteva radici e cresceva costantemente (dal 18 o poco più per cento del 1946 al 35 o quasi della metà dei Settanta). Ma, dal momento che non sapeva e non poteva spendere in prima persona questa sua forza per candidarsi a governare in alternativa alla Dc, doveva contentarsi di provare ad esercitare solo una sua influenza indiretta, o al massimo sperare di essere associato in qualche modo a maggioranze di grande coalizione, come in effetti avvenne tra il 1976 e il 1979.
C’è molto di vero, nella tesi di Cafagna. Tanto che si potrebbe provare a svilupparla ulteriormente, per derivarne una conseguenza a prima vista paradossale. Questa. Il Pci letteralmente rifondato da Togliatti nel 1944 non solo è stato decisivo nella Resistenza, nella fondazione della Repubblica e nella Costituzione, ma ha rappresentato una risorsa fondamentale (in certi passaggi cruciali, la risorsa fondamentale) della democrazia in un Paese come l’Italia, soggetto, piaccia o no, a una situazione obiettiva di sovranità limitata, con tutti i rischi connessi, e nel quale la componente politico-culturale di destra ha sempre avuto uno spessore molto più significativo di quello del Msi. Ma ha cominciato a divenire anche un problema quando, dopo aver accumulato tanti successi sull’onda di una politica democratica e riformista, non ha avuto né la testa né il cuore per tirare le dovute somme, e lasciarsi alle spalle il tempo della guerra di posizione per inaugurare quello di una sinistra socialista e democratica di governo.
In concreto: per assumersi apertamente, in prima persona, il compito di concorrere alla ricomposizione unitaria di quel movimento operaio e socialista di cui rappresentava la componente di gran lunga più importante, non mettendosi in caccia di qualche inesistente “terza via”, ma sull’unico terreno possibile e giusto. E cioè quello della costruzione di una sinistra sufficientemente larga e plurale da consentire la convivenza degli apocalittici e degli integrati, ma saldamente ancorata ai principi del socialismo democratico e riformatore. Sarebbe servita, per procedere su questa strada, non una “svolta”, ma una profonda revisione. Tutto questo però non avvenne, ed è un po’ arduo sostenere che un esplicito revisionismo comunista non abbia mai preso corpo, come è stato detto, per via dell’arroganza di Craxi nel reclamarlo o perché buona parte del partito si sarebbe rivoltata perché “fedele” all’Unione Sovietica. Le cause sono più antiche e meno banali. Per provarsi, con affetto e un po’ di rabbia insieme, a dare al Pci quel che è del Pci, tocca ragionarci ancora un po’ su.
(La seconda parte è stata pubblicata sull’Unità di giovedì 18 maggio).