Dal 7 luglio al 27 agosto
Pasolini, il mito che ci parla ancora: a Napoli la mostra “Hostia” di Nicola Verlato
Alla Cappella Palatina del Maschio Angioino, la mostra di nove quadri e nove sculture che si interroga sul mito: "PPP coltivava un antagonismo radicale contro l'omologazione del consumismo e del capitalismo. Se c’è qualcosa che ci lega al mondo e alla natura è l’arte, ci serve a capire, difende la continuità con quello che eravamo migliaia di anni fa, con la natura e la nostra natura"
Cultura - di Antonio Lamorte
Pier Paolo Pasolini come mito: non il santino beatificato a posteriori, vittima di un complotto o di un martirio, protagonista di uno dei misteri più torbidi della Repubblica. La mostra “Hostia” di Nicola Verlato, dal 7 al 27 agosto alla Cappella Palatina del Maschio Angioino a Napoli, indaga il mito come bisogno di spiegare la realtà, di risolvere e superare le contraddizioni della natura e le esigenze di una comunità, di entrare in un rito e tornare all’archè. L’arte come “responsabilità di produrre una resistenza umana a quello che non è umano. Pasolini coltivava un antagonismo radicale contro questa omologazione di marca soprattutto anglosassone e americana, del consumismo e del capitalismo, e aveva visto arrivare un nichilismo spaventoso e la perdita di senso della cultura”, dice l’artista a L’Unità. L’esposizione è stata presentata dal presidente dell’associazione MetaMorfosi, Pietro Folema, e dal curatore Lorenzo Canova. L’altro curatore è il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi. Nove sculture e nove dipinti per una storia sbagliata che continua a parlarci.
Napoli città seminale, per Verlato. Napoli culla del caravaggismo. Napoli che ospita l’opera che ha cambiato la vita dell’artista veneto: “La Flagellazione di Cristo” si trova al Museo di Capodimonte – ma fino al gennaio 2024 è al Louvre per la mostra “Napoli a Parigi”. Un’epifania. “Mia madre mi racconta ancora adesso che mi trovò con il libro di storia dell’arte aperto, la bocca spalancata”, racconta l’artista. “Quanto potevo avere, cinque o sei anni? E già disegnavo e dipingevo. Mi ricordo che volevo riprodurre il colore della pelle, mi sembrava il più difficile di tutti. È stata un’illuminazione, per la disposizione teatrale delle figure, il Cristo come statua greca illuminato da una luce più forte anche della luce reale. Non avevo mai visto un’immagine così potente”.
Figlio di produttori di vino, cresciuto in aperta campagna nel vicentino dove aveva tutto lo spazio per giocare, salire sugli alberi, pensare, Verlato ha cominciato da bambino a modellare la terra argillosa, a creare delle piccole sculture. A dieci anni già vendeva le sue opere. Alcuni clienti dei genitori videro i suoi quadri e gli dissero di questo frate a Lonigo che insegnava a dipingere. Il bambino arrivò alla sagrestia con la sua cartelletta di disegni. Fra Terenzio, un omone rubicondo, romano, non faceva differenza tra allievi di venti o trent’anni, metteva tutti allo stesso livello. “Se Raffaello alla tua età faceva quelle cose, le devi fare pure tu”. E il bambino smaniava, si applicava.
Nicola Verlato ha dipinto James Dean, Lionel Messi e Robert Johnson. Serie dedicate agli “Hooligans”, altre alle “Mothers” e ai “Clash of Civilitation”. Ha studiato architettura a Venezia ed esposto in mezzo mondo. I suoi quadri aggrediscono lo spettatore, sono un evento, detonano nel movimento che spesso ritrae scene violente e vorticose cadute, rovinosi voli che tendono nell’aria. Corpi che rimandano a Michelangelo e a Caravaggio come ai supereroi della Marvel. Di Pasolini lo avevano colpito i film, quando era un ragazzo. Lo aveva riscoperto uomo. “Non avevo mai avuto un culto, non è mai stato un faro della mia visione delle cose. Mi sono accorto dopo tempo però che molti temi che io affrontavo corrispondevano ai suoi: la ricerca del mito, di una classicità perduta negli anfratti della società dove si poteva trovare ancora quella autenticità della narrazione mitologica e tragica che il mondo borghese aveva completamente cancellato. Così come mi ha molto colpito è il processo di beatificazione dopo la sua morte”.
PPP che cade dall’alto come in una spirale, all’interno di un mausoleo, sotto gli occhi di un carabiniere e di Pino Pelosi e verso il basso, come a ritornare indietro nel tempo, verso Ezra Pound e Petrarca e lo stesso Pasolini bambino nelle braccia della madre, “la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore”, come scriveva nella Supplica. “Hostia”, vernice vinilica su lino, due metri e ottanta per uno e sessanta, del 2014, è stata la prima opera dedicata all’intellettuale, riprodotta anni dopo in un murales a Torpignattara. “Quando ho visto le persone piangere davanti al murales a Roma, alcune che Pasolini lo avevano conosciuto e frequentato, ho sentito come se l’opera avesse dato carne a un desiderio”. Quell’opera era già stata la matrice di una prima mostra a Lissone e di un’altra al MARTE di Rovereto, dove Verlato aveva aggiunto un’altra tela sul ritrovamento del corpo di Pasolini.
Il progetto si è sviluppato verso l’esterno, con l’ideazione di un mausoleo da installare a Ostia, il luogo della morte di Pasolini. “Mi interessa il rapporto dell’opera d’arte con i luoghi per sfuggire alle logiche del mercato. Mi interessa che l’opera abbia una funzione sociale, che una volta sul posto possa proteggere gli spazi e la natura, entra a far parte dell’identità del luogo. Perché il potere dell’arte produce il sacro, il sacro del politeismo, dei luoghi. Per quanto io possa essere inserito nell’arte contemporanea, mantengo un rapporto piuttosto dialettico con questa, mi interessa salvaguardare la nostra tradizione che è diversa da quella iconoclasta del mondo anglosassone. L’arte per gli americani sta nel museo, nel nostro mondo antico non c’era bisogno del museo. L’idea era costruire la città con le opere d’arte dentro”.
La mostra è stata esposta alle Terme di Diocleziano a Roma e al museo nazionale di Matera. Tutti luoghi legati alla traiettoria di Pasolini, che a Napoli ha girato il Decameron e dove aveva visto “una grande tribù” che “ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità”. Come aggiunge Verlato. “Se c’è qualcosa che ci lega al mondo e alla natura è l’arte. Se non avessimo l’arte sarebbe molto peggio, e infatti dove non c’è è molto peggio. L’opera d’arte ci serve a capire, difende la continuità con quello che eravamo migliaia di anni fa, con la natura e la nostra natura”. Lo scorso marzo è stata chiesta la riapertura delle indagini ai pm di Roma per la riapertura delle indagini sulla morte di PPP, per indagare sul ritrovamento dei tre dna individuati dai Ris nel 2010 sulla scena del crimine. L’unico condannato in via definitiva fu Pelosi. L’ultima ipotesi è che l’intellettuale si fosse recato sul posto per recuperare le pizze del film Salò o le 120 giornate di Sodoma che gli erano state sottratte. Quando venne ritrovato il 3 novembre, il corpo era stato tanto massacrato da sembrare un cumulo di spazzatura alla donna che lo aveva scoperto. Il mausoleo è stato progettato in 3d. Ostia sarebbe il posto perfetto, “ma si potrebbe fare in qualsiasi posto sulle orme di Pasolini”.