Svolta della Corte Suprema

La Corte Suprema cancella Kennedy: via le leggi anti razziste che proteggevano i neri e gli ispanici

Le affirmative action fatte decadere dalla Corte Suprema. Le avevano varate Kennedy, poi Johnson e poi Nixon, proteggevano i neri e gli ispanici. Erano le gambe della lotta al razzismo

Editoriali - di Piero Sansonetti

1 Luglio 2023 alle 10:30

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La Corte Suprema cancella Kennedy: via le leggi anti razziste che proteggevano i neri e gli ispanici

L’America ha cancellato le “affirmative action”. Sono delle regole, introdotte 60 anni fa per decreto presidenziale nella legislazione americana, che impongono la protezione delle minoranze etniche e in particolare, come è ovvio, degli afroamericani e degli ispanici. La Corte suprema le ha dichiarate incostituzionali perché, secondo la Corte, violano il diritto all’uguaglianza.

La decisione è stata presa a maggioranza: 6 contro 3. Nella piccola minoranza di giudici liberal, che hanno votato contro la sentenza, c’è la celebre Sonya Sotomayor. La quale è uscita dalla riunione della Corte furiosa e sconvolta. E ha spiegato che “non esiste l’aspirazione all’uguaglianza se non si riconosce la diseguaglianza”. Il cuore delle “affirmative action” era esattamente questo: il riconoscimento delle diseguaglianze (e soprattutto delle discriminazioni razziali).

La Corte suprema degli Stati Uniti è un luogo politico e giudiziario di straordinaria potenza. Raduna i poteri che da noi sono suddivisi tra Corte di Cassazione e Corte Costituzionale. Ma soprattutto è composta secondo criteri, diciamo così, monarchici o feudali. È composta da solo 9 persone e queste persone sono semplicemente scelte dal Presidente degli Stati Uniti, a sua discrezione, e una volta nominate restano nel loro incarico a vita. Se sono nominate quando sono ancora giovani possono durare 30 o 40 anni o anche di più. Cosa ci sia di democratico in questa istituzione è un mistero della fede.

La composizione della Corte è del tutto fortuita. Dentro la Corte, come è logico, c’è una certa quantità di giudici liberal e una certa quantità di giudici conservatori o reazionari. Quale dei due gruppi sia in maggioranza dipende dal caso. E cioè dalla data di morte dei giudici precedenti. Se un giudice liberal muore mentre alla Casa Bianca c’è un repubblicano, è molto probabile che sia sostituito da un conservatore. Viceversa se muore un giudice di destra mentre il Presidente è democratico. Negli ultimi decenni la maggioranza dei giudici anziani è morta sotto presidenze repubblicane, e così la vecchia maggioranza liberal che aveva, negli anni 70, abolito (per la precisione sospeso) la pena di morte, oggi è totalmente rovesciata. E questa maggioranza attuale, fortemente reazionaria, ieri notte ha cancellato le “affirmative action”.

Il giudice John Roberts, che ha annunciato la clamorosa sentenza ai giornalisti, ha spiegato il motivo della decisione: «Le “affirmative action” erano state immaginate per sanare uno squilibrio, ma non potevano durare per sempre». Quale squilibrio? Quello del razzismo, ovviamente, che negli Stati Uniti (specie al Sud, ma non solo) è erede dell’orrore schiavista che ha accompagnato la nascita e la crescita del Paese. Davvero si può dire che oggi lo squilibrio è cessato? E se è cessato, come si spiega – ad esempio – che la maggioranza assoluta della popolazione carceraria è afroamericana, mentre solo il 13 per cento della popolazione è afro-americana? Il crimine, forse, è nel Dna dei neri?

La storia delle “affirmative action” è lunga e accompagna la complessa battaglia degli Stati Uniti contro il razzismo, iniziata soprattutto nel dopoguerra e che ottenne i suoi risultati migliori negli anni 60. Le “affirmative action” sono dei decreti presidenziali (“Executive orders”) che prevedono una forma di favoritismo nei confronti delle minoranze etniche sia nei concorsi per impieghi pubblici sia nelle ammissioni all’Università e al liceo. In sostanza, nella loro ultima versione, stabiliscono che a parità di meriti un rappresentante della minoranza etnica è favorito. Cioè conquista alcuni punti in virtù della sua etnia. Sulla base di queste regole molti illustri cittadini neri si sono fatti strada.

Per esempio Obama e sua moglie Michelle. Recentemente un gruppo di studenti di estrema destra ha fatto causa alla ultraprestigiosa università di Harward. E la causa è finita alla Corte suprema che, appunto, ha condannato Harward e raso al suolo la legislazione antirazzista. Le “affirmative action” furono pensate per tentare un riequilibrio nella pubblica amministrazione, nei licei e nelle università. Dove la presenza dei bianchi (wasp, in gergo), negli anni 50 del Novecento era schiacciante nei confronti dei neri e dei latini. 95, 96 per cento. E dunque bisognava correggere, almeno un po’. Le “affirmative action” furono concepite come leggi contro la discriminazione, che per essere efficaci dovevano non solo frenare ma rovesciare la discriminazione. Furono varate in tre successive ondate.

Il primo a emettere un ordine esecutivo fu il mitico John Kennedy, nel 1961, poco dopo della sua elezione alla Casa Bianca. Poi fu la volta di Lyndon Johnson, che dopo aver varato il Civil Right Act (Civil Right Bill), il 2 luglio del 1964, decise di migliorare le “affirmative action”, che erano perfettamente complementari al Civil Right Bill. Il quale Right Bill fu una vera e propria rivoluzione nella società americana. Per la prima volta, dai tempi di Lincoln, si varavano delle leggi che favorivano i neri e proibivano la loro discriminazione. Che era ancora fortissima, specie negli stati del Sud dove vigeva la legge non scritta del Jim Crow. La quale vietava ai neri di andare nelle scuole dei bianchi, proibiva loro di sedersi nei bus sui sedili riservati ai bianchi, li escludeva da gran parte delle università, dall’impiego pubblico, gran parte di loro anche dal voto (per ottenere il quale era necessario superare delle prove non semplici), e persino dai bar, dai ristoranti, dai cinematografi e dai gradi di ufficiale in quasi tutti i reparti dell’esercito.

Kennedy fu il primo a dare ascolto alle battaglie dei neri. E giusto un anno prima dell’approvazione del Right bill, il 3 agosto del 1963, il leader cristiano nero Martin Luther King portò un milione di persone a Washington e lì pronunciò il suo celeberrimo discorso: “Ho un sogno, amici miei, il sogno di vedere i bambini bianchi per mano ai bambini neri, il sogno di vedere le rosse colline della Georgia… I have a dream, a dream, a dream”. Kennedy lo ricevette. E proprio in quell’occasione iniziò a preparare la legge contro la discriminazione. ma il 23 novembre di quell’anno, tre mesi dopo l’incontro con King, fu ucciso a Dallas.

La questione passò nelle mani di Johnson, il vicepresidente che si insediò alla casa Bianca poche ore dopo la morte di Kennedy, che era considerato dagli osservatori un conservatore. Come tutti i democratici del Texas, che erano eredi politici dei ribelli secessionisti e del Ku Klux Klan. Invece Johnson sorprese l’America e in pochi mesi fece approvare la legge contro il razzismo e subito dopo emanò un nuovo executive order che rafforzava le azioni positive. Ma l’ultimo colpo – nuova sorpresa – lo diede Richard Nixon. Che a sua volta rese ancora più forti le “affirmative action”, rendendo maggiore il vantaggio dei neri e degli ispanici, e anche delle donne.

In realtà Nixon si porta sulle spalle – come Johnson del resto – la responsabilità della guerra folle del Vietnam, ma in politica interna era un progressista. E probabilmente questo fu il motivo per il quale quelli che oggi chiamiamo i poteri forti decisero di eliminarlo. Incaricarono l’Fbi, che assoldò due giornalisti del Washington Post, diventati poi famosissimi, ma in realtà semplici amanuensi dei servizi segreti, e creò lo scandalo famoso, il Watergate, che eliminò Nixon e permise ai repubblicani di iniziare a lavorare al reaganismo e alla svolta liberista e antisociale.

C’è chi pensa che il Watergate fu una vittoria della democrazia. No, fu una manovra degli 007 per tagliare le gambe alla parte moderna e sociale del partito repubblicano e per imprimere alla politica americana quella svolta a destra che poi si estese a tutto l’Occidente. Qualcosa però era rimasta di quell’America. L’America della nuova frontiera, della Great society, del sogno egualitario, dell’antirazzismo. Erano rimaste, magroline e solette, le “affirmative action”. Ecco, ora le hanno tagliate. Non c’è più niente del kennedismo, di quella speranza lì. Ieri Biden e Obama hanno molto sbraitato. Giusto. Ma ormai sono sconfitti. Biden potrà magari anche vincere le elezioni, ma dell’America spumeggiante degli anni sessanta non c’è più nulla. Bob Kennedy, il ribelle quasi socialista, era stato cancellato da un pezzo. Ieri è scomparsa anche l’ombra di John.

1 Luglio 2023

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