Le amicizie della premier
Da Bannon a Orban: il Pantheon nero di Giorgia Meloni
Dal feeling con Bannon alle parole di sincera stima per il razzista Saied, la presidente del Consiglio ha accuratamente selezionato le sue simpatie ideologiche. Non è soltanto Realpolitik
Editoriali - di Umberto De Giovannangeli
Certo, in qualità di presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha incontrato i più importanti leader mondiali, sia nei vertici G7 o in ambito Ue come nei bilaterali. È un dovere istituzionale a cui non ci si può sottrarre. Ma le vecchie amicizie sono quelle che non si dimenticano mai. Perché sono le più sincere, profonde, meditate. L’Unità ne racconta alcune.
Quelle più evocative di dove batta il cuore identitario di Meloni – Orban, Bannon – e quelle più recenti, interessate, con alcuni degli autocrati – al-Sisi, Haftar, Saied – che popolano la sponda sud del Mediterraneo. Quelli a cui l’Italia e l’Europa hanno affidato il lavoro sporco: quello dei respingimenti. Sia con i vecchi amici che con quelli acquisiti di recente, Giorgia Meloni, prima come leader dell’opposizione e oggi da premier, non tratta mai, se non di sfuggita, pro forma, il tema dei diritti umani.
C’è da capirla. Per gli Orban, i Bannon, gli Haftar, i Saied, gli al-Sisi, i diritti umani semplicemente non esistono. E quelli che provano a sollevare il tema finiscono male. È il caso di Giulio Regeni. Le amicizie che raccontiamo, delineano il profilo sovranista-securitario di Giorgia Meloni e della destra che governa l’Italia. Il profilo vero, non quello ritoccato per essere accettata nei salotti che contano della politica internazionale. Ora Giorgia si mostra iper filoatlantica e finanche europeista. Ma guardate bene la foto che la ritrae, sorridente, fianco a fianco con Steve Bannon. La maglietta esibita è tutto un programma.
P.s. Per ragioni di spazio, dal “pantheon” di Giorgia mancano due altri campioni di razzismo, omofobia e simpatie fasciste: l’ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro – plaudito e sostenuto apertamente da Meloni – e il premier polacco Mateusz Morawiecki.
L’idillio con Bannon, il paraguru della destra golpista di Trump
Un idillio imbarazzante. Ma solido quanto il granito. “È per Dio, patria e famiglia. Tutto questo non mi sembra essere radicale”. Così, nel corso di una trasmissione alla tv americana, Steve Bannon, un tempo anima dannata di Donald Trump e guru dell’ultradestra statunitense, nel suo podcast War Room ha parlato di Giorgia Meloni e della vittoria nelle elezioni politiche 2022 in Italia. La leader di Fratelli d’Italia in alcuni ambienti, dice Bannon, viene definita “anche più pericolosa dei fascisti”.
“Sono in confusione totale. Questo la rende una nazionalista cristiana. Il peggiore dei fascisti, giusto?” Nel 2018, Bannon è stato ospite di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia. Già a quei tempi aveva proposto a Meloni di essere “il volto ragionevole che permetta al populismo di destra di trionfare”. “Bannon – ricorda su Internazionale Pierre Haski, direttore di France Inter – l’uomo che aveva tentato di federare l’estrema destra europea, non può celebrare la “sua” vittoria a posteriori, perché troppo impegnato con la giustizia statunitense e privato del passaporto”. 18 settembre 2022. “Come Thatcher, dovrà fronteggiare l’opposizione, ma come Thatcher vincerà. E come Thatcher, la Storia proverà che ha ragione. Combatterà Cina e Russia”: Bannon elogia Giorgia Meloni, spiegando che alla fine ce la farà. Un vero e proprio endorsement.
Chi è per Meloni Bannon lo chiarisce lei stessa così: “Con il lavoro che ha svolto al fianco di Trump, ha contribuito fortemente a cambiare i paradigmi del nostro tempo e non poteva mancare ad Atreju. Ci siamo incontrati un paio di volte e c’era il reciproco interesse a conoscerci e ora posso dire che tra noi è nata un’amicizia spontanea. Credo di averne definitivamente conquistato la stima qualche giorno fa mentre rilasciavo un’intervista a un giornalista inglese. A un certo punto non ci ho visto più e gli ho risposto a modo mio. Credo ne sia rimasto molto colpito”. Un idillio che viaggia anche per Facebook. Così Giorgia Meloni “Bannon sta creando una rete dei movimenti che condividono le stesse idee, cioè la difesa di valori come l’identità nazionale, la famiglia, la tradizione. Noi vogliamo essere parte di questa associazione ma rimaniamo sempre e soltanto filo italiani”. Meloni-Bannon. Le solide amicizie non si scompongono.
Orban, il Fratello d’Ungheria che fa la guerra a gay e profughi
È un idillio di lungo corso. Un “amore” politico sbocciato ai tempi in cui Giorgia contestava dai banchi dell’opposizione la deriva europeista dell’Italia, in nome di un sovranismo nazionale sacrificato alla tecnoburocrazia di Bruxelles. Giorgia Meloni&Viktor Orban, un sodalizio che non mostra falle. Da un lancio di agenzia del 21 settembre 2019: “È stato un caloroso benvenuto, con applausi e cori, quello che ha accolto sul palco di Atreju il primo ministro ungherese Viktor Orban, ospite d’onore della festa di Fratelli d’Italia. “Grazie per questa presenza che mi riempie di orgoglio. Consideriamo Orban un patriota come noi e guardiamo all’Ungheria come modello di un’Europa possibile e diversa”, le parole della leader di FdI Giorgia Meloni omaggiata dal leader ungherese con un mazzo di fiori. Poi una volta chiamato sul palco, Orban ha salutato la padrona di casa con tanto di baciamano”.
Da un baciamano a un twitter esaltatorio: “Io sto con Orbán e con il popolo ungherese, colpevoli di voler difendere i propri confini. NO alle sanzioni!”. Così “cinguetta” Meloni nel 2018. Un afflato che si conferma anche una volta che la leader di Fratelli d’Italia diventa presidente del Consiglio. Sui migranti, da rispedire indietro con ogni mezzo, ma non solo. Sette aprile 2023. L’Italia di Giorgia Meloni si schiera a pieno titolo con i paesi di Visegrad che discriminano gay, lesbiche, transgender. Il 6 sera scadeva la possibilità dei singoli Stati dell’Unione Europea per sostenere la causa della Commissione e del Parlamento europeo contro la legge voluta da Orban nel 2021 che censura la rappresentazione dell’omosessualità o del cambio di sesso nei libri scolastici, nei film e nei programmi tv per i minori di 18 anni.
Ursula von der Leyen aveva definito la legge «una vergogna». Una vergogna su cui l’Europa non è stata zitta, aprendo fin da subito una procedura di infrazione contro l’Ungheria. In assenza di passi indietro da parte di Orban, ha poi fatto scattare il deferimento alla Corte di Giustizia Ue. Toccava ai singoli Paesi scegliere da che parte stare. Francia e Germania insieme ad Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia hanno sostenuto la causa intrapresa della Commissione. Nella lista non c’è l’Italia. Giorgia non poteva tradire l’amico Viktor.
Haftar, il trafficante con picchetto d’onore a Palazzo Chigi
Un criminale di guerra, in combutta con milizie e tribù dedite al traffico di esseri umani, sodale di Putin e amico di quelli della Wagner. Al secolo Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Un criminale ricevuto in pompa magna, come uno statista, a Palazzo Chigi dalla premier Meloni. I crimini a lui ascritti scompaiono agli occhi dei suoi sponsor di Roma.
L’importante è che il generale Haftar sappia svolgere bene il compito assegnatogli dal governo italiano: quello di “gendarme” del Mediterraneo e di respingitore dei migranti. Incensato dalla presidente del Consiglio, osannato dal ministro dell’Interno, l’iper securista Matteo Piantedosi. Al generale Haftar, proclama il titolare del Viminale, l’Italia chiede una “più proficua collaborazione nel fermare le partenze” dei migranti dalla Libia orientale. Non importa i mezzi, criminali, che utilizzerà, l’importante è praticare l’obiettivo. Detto e fatto. Nelle scorse settimane le forze di Haftar hanno espulso migliaia di egiziani e li hanno rimpatriati nel loro Paese a piedi e via camion, attraverso i valichi di frontiera terrestri tra i due Paesi.
Nel luglio 2022, Khalifa Haftar è stato condannato da un tribunale federale degli Stati Uniti a risarcire i cittadini libici accusandolo di torture ed esecuzioni extragiudiziali. Anche Amnesty International lo accusa di aver commesso crimini di guerra nell’est della Libia. Dal 2016, la forza guidata dal figlio di Haftar, Saddam, “ha terrorizzato le persone nelle aree sotto il controllo della Laaf, infliggendo una serie di orrori, tra cui uccisioni illegali, torture, sparizioni forzate, stupri e altre violenze sessuali”, ha affermato il ricercatore di Amnesty Hussein Baoumi.
Le milizie di Haftar hanno rimosso con la forza “migliaia di rifugiati e migranti” dal sud della Libia e sono state coinvolte nella rimozione forzata di “migliaia di famiglie libiche” durante le varie campagne militari di Haftar dal 2019 ad oggi. Così stanno le cose. Chi è Khalifa Haftar al Viminale, come a Palazzo Chigi e alla Farnesina, lo sanno molto bene. La sua storia è conosciuta. I suoi crimini pure. Come le sue amicizie internazionali. Ma tutto questo passa in cavalleria. L’unica cosa che conta per la premier Meloni è che faccia bene il lavoro sporco al posto nostro.
Coccole ad al Sisi, padrino silenzioso dei killer di Regeni
Sette novembre 2022. Un silenzio terribile e imbarazzante ha accompagnato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo viaggio in Egitto, in occasione dell’inizio dei lavori della conferenza sul clima Cop27. Arrivata per partecipare alle due giornate riservate ai capi di Stato e di governo, debuttando nel suo primo vertice internazionale, Meloni ha stretto la mano al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi senza aver mai pronunciato una parola riguardo all’omicidio del ricercatore Giulio Regeni o all’ingiusta carcerazione del ricercatore dell’università di Bologna, Patrick Zaki.
Nessuna frase di circostanza, nessun riferimento, nemmeno una telefonata alla famiglia di Regeni, come avevano fatto i precedenti governi. Il governo di Giorgia Meloni ha deciso di ignorare pubblicamente il sequestro, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni per mano delle autorità egiziane. Al contrario, la premier ha semplicemente ringraziato al-Sisi con un tweet, per gli auguri di inizio mandato, e si è presentata all’incontro bilaterale organizzato dal leader egiziano nel silenzio istituzionale su uno degli omicidi politici diventati il simbolo dell’impunità del regime del Cairo. “L’incontro ha dato occasione al presidente Meloni di sollevare il tema del rispetto dei diritti umani e di sottolineare la forte attenzione dell’Italia sui casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki”, sottolinea una breve nota di Palazzo Chigi, aggiungendo che “durante l’incontro si è parlato di approvvigionamento energetico, fonti rinnovabili, crisi climatica e immigrazione”.
La “forte attenzione al caso di Giulio Regeni” relegata, non a caso, in coda al comunicato sull’incontro di Sharm el-Sheikh. Poco meno di niente. Una frase di circostanza condita di ipocrisia. “Insabbiamenti, ostruzionismi, ritardi, mancanza totale di collaborazione. Questo è quello che abbiamo ricevuto finora dall’Egitto. Difficile essere fiduciosi oggi, se questi sono i precedenti”. Così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, all’indomani del faccia a faccia tra la premier italiana e il presidente egiziano è convinto che ci sia poco da essere ottimisti. I fatti gli hanno dato ragione.
La stima per Saied razzista che odia i neri e lo dice a voce alta
Alla frenetica ricerca di “gendarmi del Mediterraneo”, Giorgia Meloni sbarca a Tunisi e incrocia un presidente-autocrate che ha liquidato ciò che restava della “rivoluzione dei gelsomini”: Kais Saied. L’Orban di Tunisi ha dichiarato guerra ai migranti neri evocando una “sostituzione etnica” da contrastare con ogni mezzo. Su questo c’è un feeling naturale con la presidente del Consiglio che viene da Roma. “Sono molto felice di parlare con lei dei nostri problemi. Lo dico a voce alta, oggi lei è una donna che dice a voce alta ciò che altri pensano in silenzio”, la omaggia Saied nell’incontro del 6 giugno a Tunisi.
Meloni incassa sorridente e apre al suo estimatore liberticida e razzista: “Abbiamo fatto fin qui un ottimo lavoro insieme alla Tunisia, gli sbarchi in Italia sono sensibilmente diminuiti a maggio rispetto a marzo e aprile. Chiaramente siamo di fronte alla stagione più difficile da questo punto di vista, non possiamo che essere preoccupati per i prossimi mesi e riteniamo che si debba intensificare il nostro lavoro comune rafforzando la collaborazione con le autorità tunisine nell’attività di prevenzione soprattutto nella regione di Sfax, dal cui parte la gran parte dei migranti irregolari”, sottolinea la premier nella dichiarazione congiunta. “Ottimo lavoro”.
Quello dei respingimenti in mare. Della costrizione di una umanità sofferente che fugge da guerre, disastri ambientali, povertà assoluta. Una povertà che ipoteca il futuro della Tunisia e di un popolo giovane che riempie i barconi. Ma la premier insiste e rilancia: L’Italia “conferma il sostegno alla Tunisia a 360 gradi”, “La stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza, la crescita della democrazia è indispensabile per la Tunisia, ma anche per l’Italia, perché si possa insieme raggiungere potenziali che sono straordinari dal nostro punto di vista”, dice ancora Meloni. Cosa sia la “crescita della democrazia” per Saied è presto detto: carceri piene di oppositori, militarizzazione del paese, caccia al nero migrante. Ma per fare il lavoro sporco a posto nostro (Italia, Europa) l’autocrate tunisino alza il prezzo. Ha imparato la lezione da Erdogan.