L'appello

Dall’individuo alla comunità: perché la Chiesa serve ancora

Oltre la sterile contrapposizione tra progressisti e conservatori, i cattolici possono diventare il cardine di un cambiamento che rimetta al centro le persone

Editoriali - di Gaetano Quagliariello

30 Giugno 2023 alle 15:00

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Dall’individuo alla comunità: perché la Chiesa serve ancora

Monsignor Paglia, sulle pagine dell’Unità, esorta i cristiani (e non solo) ad essere i protagonisti di una nuova stagione della politica. Alla ricerca di forme nuove di presenza e di un nuovo protagonismo (perché “il mondo di ieri” non ritorna), evoca “un cristianesimo largo” in grado tra l’altro di prescindere e aggiornare la tradizionale scissione tra “progressisti” e “conservatori”.

La lettera-appello di Paglia mi ha spinto con naturalezza a mettere in correlazione la sua proposta con i risultati di un sondaggio, che ho avuto modo di analizzare qualche settimana fa, promosso dal periodico cattolico Il Timone e che verrà presentato nella sua integralità nel prossimo mese di luglio. Esso evidenzia come la maggior parte dei cattolici praticanti, su molti temi che toccano direttamente la dottrina della Chiesa, si trovino in patente disaccordo con essa: come se la dottrina fosse del tutto scissa dalla pratica della fede e come se i principi da essa espressi possano considerarsi una sorta di “credo politico” adottato dalla Chiesa, al quale si può aderire o meno senza che questo abbia alcuna conseguenza sull’esperienza di fede.

Alcuni esiti del sondaggio sono così clamorosi che aiutano a comprendere perché il venir meno di un contatto laico tra Chiesa e politica – rispettoso cioè degli ambiti di esclusiva competenza di Cesare e di di Dio -, da tanti e per tanto tempo frettolosamente ritenuto “ingerenza”, sia stato invece una perdita secca alla quale la Chiesa dovrebbe fare di tutto per ovviare. Esso garantiva, infatti, che la fede non si rinchiudesse nel ghetto della coscienza individuale perdendo contatto non soltanto con la città dell’uomo ma persino con l’ecclesia, intesa come esperienza comunitaria e popolare.

La Chiesa, d’altro canto, nell’Italia del dopoguerra ha sempre esortato i cattolici all’impegno politico tenendo laicamente in conto le condizioni storiche contingenti e le loro implicazioni. Dopo il 1947 la scelta del partito unico dei cattolici è stata assai più la risposta obbligata alla divisione del mondo in blocchi che non un’opzione esplicitamente ricercata dalle gerarchie. Così come negli anni Novanta, quando l’assetto mondiale cambiò per la fine del mondo comunista che si riferiva all’Unione Sovietica, la ricerca del passaggio dalla fase del partito unico a quella della presenza dei cattolici nei partiti fu anche il modo per provare a favorire la nascita di un bipolarismo innervato di principi e valori condivisi. Era quella la Chiesa di Wojtyla che in Italia trovava in Camillo Ruini una guida energica e politicamente attrezzata; era una Chiesa ancora in grado di esprimere un’egemonia e di proporsi come guida al di sopra di divisioni contingenti.

Lo smarrimento di tali prerogative e la consapevolezza della inesorabile trasformazione delle avanguardie cattoliche in minoranze creative, spinse poi Benedetto XVI, succeduto a Giovanni Paolo II, a puntare sul dialogo tra credenti e non credenti, non solo nel tentativo di fissare una religione che fosse anche civile (vivere come se Dio esistesse) ma come ricerca di inediti strumenti di evangelizzazione. Nacquero così “i cortili dei gentili” e si svilupparono i grandi dialoghi tra uomini della Chiesa ed esponenti dell’intellettualità laica.

A me pare che la lettera di Monsignor Paglia s’iscriva nel solco di questa incessante ricerca. Essa, dunque, attesta innanzi tutto l’assenza di una proposta che sappia cogliere lo spirito di un tempo per tanti versi inedito. Fornisce, quindi, alcune indicazioni sui contenuti e le forme che potrebbero portare a colmare quel vuoto. Vorrei provare a declinare le sue indicazioni in un’ottica cristiano-liberale, consapevole di quanto possa risultare importante questo approfondimento per la mia cultura politica di riferimento che oggi sta vivendo una stagione di minorità e di appannamento.

Tutto quel che ci circonda – dai fatti più contingenti alla considerazione delle strutture sociali più stratificate – ci dice che stiamo vivendo in un tempo di esasperato individualismo, che in molti casi si propone come l’invisibile tratto comune tra schieramenti e partiti che si credono opposti e che, invece, declinano soltanto con modalità differenti la dittatura dell’individuo: l’esatto contrario della centralità della persona. Questa realtà, nell’ambito della proposta politica, alimenta continuamente un’idea di liberà scissa da ogni responsabilità verso la propria comunità che, inevitabilmente, fissa il divorzio tra la sfera dei diritti e quella dei doveri.

Mentre nel campo delle forme organizzative, essa è alla base di partiti esasperatamente personali che poggiano su un’idea di leadership coincidente con il percorso più o meno eroico di uno solo. Proposta politica e forme della politica, poi, si coniugano e si compendiano nel prevalere del solipsismo della rete sulla concreta esperienza umana che, tra le altre cose, porta a rifuggire dalla pratica della mediazione, spingendo verso la polarizzazione del conflitto politico a ogni costo.

È da qui che deve ripartire una nuova proposta cristiana (e liberale) d’impegno politico: contrapporre a un’esperienza individuale sempre più estraniante quella della persona parte della comunità, intendendo tale relazione come rapporto sussidiario di un tutto con un tutto. A partire da questo riferimento centrale sarà forse possibile fornire una bussola per orientarsi di fronte alle sfide continue e inedite che la dimensione del post-umano ci presenta e proporre un criterio per verificare categorie politiche come “progressisti” e “conservatori” divenute tradizionali più per pigrizia che per sedimentazione di senso. Anche in vista, perché no, di nuove e più proficue alleanze.

30 Giugno 2023

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