Il vertice europeo

L’Ue vuole deportare i migranti in lager fuori dai suoi confini

La richiesta italiana: abbassare gli standard per considerare “sicuro” il luogo di deportazione

Editoriali - di Luca Casarini

9 Giugno 2023 alle 18:00

Condividi l'articolo

L’Ue vuole deportare i migranti in lager fuori dai suoi confini

La chiamano connessione. Si tratta del diritto di uno stato europeo di deportare e far internare in un campo di detenzione una persona alla quale venga rifiutata la richiesta di asilo anche in un paese terzo diverso da quello di provenienza purché “sufficientemente” sicuro, secondo gli “standard” di rispetto dei diritti umani. E’ l’ultima trovata dell’Europa democratica e civile contro i rifugiati e i migranti, donne uomini e bambini che abbiano la sventura di pensare che qualcuno, qui nella culla della democrazia, difronte al loro bisogno di sopravvivere, li accolga.

La connessione è in discussione in queste ore al vertice dei ministri degli interni in Lussemburgo, dove raggiungere un accordo su come affrontare il tema dei migranti è più difficile che sulla guerra. La possibilità di deportare le persone che non hanno commesso alcun reato e di farle internare in campi di concentramento appositamente creati all’esterno dei confini Ue è l’ultima frontiera, è il caso di dirlo, della torsione dei principi e delle convenzioni internazionali, in favore delle politiche securitarie e di respingimento che caratterizzano gli stati membri quando hanno a che fare con i migranti.

Sbaglia dunque chi chiede a Giorgia Meloni di abbandonare Orban, in nome della natura liberale dei suoi competitor elettorali in Europa: il sovranismo straccione e crudele sembra aver sostituito da un pezzo i principi liberali e democratici in Europa, e questo al di là degli estremisti di destra. Sono gli estremisti di centro ad averne assorbito i miasmi, spingendosi fino a teorizzare aberrazioni come le deportazioni e gli internamenti democratici. La connessione, che sarà introdotta dalla Ue nel nuovo “patto sulle migrazioni”, viene utilizzata per ovviare al problema dei mancati rimpatri.

E’ noto come questo sia un tema spinoso anche e soprattutto per il governo italiano che deve presentare al suo elettorato qualche cosa in cambio dell’aumento, e non dell’azzeramento promesso in campagna elettorale, degli sbarchi di migranti. Il “qualcosa” è una dose aumentata di cattiveria e durezza nei confronti di chi arriva vivo, dopo aver superato l’orrore dei lager finanziati da Italia e Unione europea in Libia e la roulette russa del viaggio per mare o per terra. Dopo la strage di Cutro, che non fu una tragica fatalità ma il risultato di scelte compiute dalle autorità italiane, la risposta è stata una accelerazione non delle politiche di accoglienza, ma di quelle di detenzione: “Un Cpr (centro per il rimpatrio ) in ogni regione”, tuonava la Meloni, mentre i corpi dei bambini stavano ancora tornando a riva, annegati e abbandonati.

Ma i rimpatri, la dose omeopatica di veleno da usare per riequilibrare i “troppi salvati” dalla Guardia Costiera e dalle navi del soccorso civile, non sono facili da fare: ci vogliono accordi bilaterali con i paesi di provenienza delle persone. Paesi che quasi mai collaborano.
Uno degli argomenti principali di discussione dei continui incontri con trafficanti e dittatori che avvengono a Roma, a Tunisi e a Tripoli, è proprio questo: quanti soldi volete per riprenderveli? O per impedirgli di scappare? Più la dittatura di riferimento è solida, e meglio è garantito il successo della “missione diplomatica”.

Un caso da manuale è quello del Sultano Erdogan, pagato 6 miliardi di euro per trattenere, in condizioni spaventose i profughi siriani in fuga dalla guerra. Una suora francescana che assiste come può gli esseri umani detenuti nel campo profughi di Smirne, con gli occhi abbassati dalla vergogna e dal dolore, un giorno raccontava di come «le bambine si prostituiscano per procurare i soldi alla famiglia necessari per una barca». Nel caso del modello Erdogan, storica fu la visita nel 2018 di Ursula Von Der Layen, alla frontiera greco turca mentre i profughi a migliaia si erano ammassati per chiedere aiuto, bloccati da fili spinati ed esercito. «Siete lo scudo d’Europa» dichiarò, complimentandosi con le autorità greche che salvavano l’Unione dalla massa di poveri e disperati che voleva entrare.

Il dittatore tunisino Saied, perché questo di fatto è il suo status dopo lo scioglimento d’autorità degli organi costituzionali e istituzionali post primavera araba, forse avrà un futuro grazie ai soldi elargiti dall’Italia in cambio di trattenimenti, affondamenti e rimpatri e il governo Meloni, tramite il Commissario speciale Valente, ha annunciato che Lampedusa diventerà proprio un Cpr per tunisini da rimpatriare. Sembrava troppo forse concentrarsi su accoglienza e primo soccorso, cosa sempre mancata sull’isola che da mille anni è approdo per ogni navigante del Mediterraneo, a causa dell’impostazione hotspot, più campo di detenzione che luogo in cui dare il primo aiuto a chi – uomo donna o bambino che sia – giunge per mare.

La connessione, la deportazione fuori dai confini in altri stati, è anche l’idea del premier britannico Sundak: il Rwanda offre ottime condizioni di trattenimento per rifugiati da deportare dal Regno Unito. La ministra degli interni inglese, dopo le polemiche suscitate dalla decisione di dare vita alle deportazioni, si è persino fatta riprendere mentre «constatava l’ottima sistemazione che avranno i respinti nel paese africano».

Una scenetta che se non fosse per l’orrore, sembrava uno spot di un villaggio turistico. Il Parlamento europeo ha duramente attaccato la decisione del governo inglese. Ma oggi la stessa ricetta, con parole diverse, è in discussione in Lussemburgo. Quello che la Brexit divide, la guerra contro i migranti unisce. La narrazione ufficiale prevede che il trattamento di connessione, alias deportazione, sia riservato a «coloro che non hanno titolo per risiedere all’interno dei confini dell’Unione». Ma questa premessa va letta insieme ad un altro punto, al quale l’Italia tiene molto: maggiore flessibilità sulla qualificazione di “paese terzo sicuro”.

Che tradotto significa che quei paesi che non hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra, oppure presentano caratteristiche finora considerate incompatibili con il rispetto dei diritti umani, saranno valutati con meno rigidità, con più tolleranza. Si abbassa l’asticella delle garanzie per le persone, si riduce il numero di coloro che avranno diritto di asilo rispetto al luogo da dove fuggono. Anche se il diritto di asilo, quello che Hannah Arendt chiamava «il diritto ad avere diritti», è un diritto soggettivo e perfetto, in questi anni la sua effettiva applicazione ha dovuto sempre fare i conti con automatismi e standard, ad esempio quello spesso insuperabile del “paese terzo sicuro”.

La connessione prevede la possibilità di deportare i migranti ai quali è stata rifiutata la protezione internazionale, in un paese diverso da quello di origine ove esista una “connessione” precedente: ad esempio, se uno scappa dalla Libia, dopo esserci stato imprigionato per un certo tempo, potrebbe essere deportato lì da suolo europeo. Naturalmente per ora i requisiti richiesti sono un certo grado di “sicurezza” per la persona, che la Libia non può offrire nemmeno per finta. Ma intanto si apre la strada: il sistema Minniti, l’impossibile zona Sar libica, la cosiddetta “guardia costiera” fatta da miliziani e trafficanti, sono la dimostrazione che quando il potere fa la guerra, e questa è una guerra contro esseri umani in movimento, gode di un preciso diritto di mentire. Come in tutte le guerre.

9 Giugno 2023

Condividi l'articolo