Il memorandum Italia-Libia
Calenda, Salvini e Meloni: quali sono le differenze (se ce ne sono…)?
Sulla lotta all’immigrazione e il finanziamento dei lager libici il fronte è compatto: “prima gli italiani”. E il presunto liberale parla come il leghista
Politica - di Iuri Maria Prado
Per chiuderla facile basterebbe ricordare quanto le politiche della sinistra di finanziamento ufficioso dei lager libici piacquero un sacco anche a destra, quanto piacquero al signore col faccione di Putin sulla maglietta e alla madre cristiana che reclamava l’affondamento dei navigli umanitari sul presupposto (testuale) che “l’immigrazione non è un diritto degli esseri umani”.
Ma non vogliamo chiuderla facile. Perché quelle scelte, già oscene per come subdolamente erano prestate a sventolare il risultato degli sbarchi diminuiti, pretendevano oltretutto di aver salvaguardato la “tenuta democratica del Paese”: un altro modo, trasversalmente accettabile, per dire “i sacri confini della patria”. Con quella, la tenuta democratica, e questi, i sacri confini, affidati all’oliatura del meccanismo di rastrellamento e segregazione che una manciata d’anni appresso – vedi tu la combinazione – avrebbe attuato il protocollo secondo cui bisogna “aiutarli a casa loro”, e pace se la casa è un campo di concentramento e se l’aiuto non è a loro, ma a chi li tortura.
Non ho ancora fatto il nome politico che ha occasionalmente suscitato queste righe, e forse è anche inutile registrare che il finanziamento dei lager non soltanto piacque, allora, al bi-dente sovranista, ma piace anche, ora, al liberale (?) Calenda che rivendica di aver assicurato il proprio sostegno a quella politica simultaneamente aguzzina e vigliacca: aguzzina, perché non era un’ipotesi rischiosa ma un fatto certo che quel denaro avrebbe remunerato le milizie dello stupro e della tortura; e vigliacca, perché adoperata a tener buono e a rivoltare in consenso il risentimento xenofobo e razzista che antepone l’interesse nazionale al diritto di pacchia forestiero, lo stesso che assicura voti sulla “correlazione evidente tra Covid e immigrazione” e via microfono protegge la gente perbene educandola a diffidare degli zingari.
È stupefacente che non ci si renda conto di come quelle presunte esigenze sicuritarie siano state negli anni adibite a scudo di politiche addirittura formalmente discriminatorie quando non criminali senz’altro, e se oggi dobbiamo confrontarci con provvedimenti che proteggono la famiglia tradizionale destituendo il diritto di un bambino di essere riconosciuto come figlio è esattamente perché non si capisce – o si fa mostra di non capire, ed è peggio – che “prima gli italiani” non era affatto una deviazione destrorsa ma un’ambizione diffusa, pronta per essere coltivata a casaccio ovunque servisse, dalla riaffermazione dell’autarchia della nocciola alla legittimità dei figli subordinata al criterio Family Day fino, appunto, alla rivendicazione a braccia allargate dell’inevitabilità dei campi di concentramento se si tratta di affrontare il pericolo della sostituzione etnica.
Che poi questo spettacolo vada in scena sul palco del comiziante che impugna il rosario e chiede di respingere i migranti in nome di Gesù Cristo, o invece nell’incontinenza social del liberale che non ne azzecca una, è soltanto il segno della diffusione di un’identica patologia: la riprova che non solo non abbiamo fatto i conti con una maestosa colpa nazionale, ma che ulteriormente accetteremmo di rendercene responsabili. Ma che altro deve succedere, quanto ancora bisogna aspettare perché l’Italia trovi la dignità di ripudiare ciò che ha fatto? Per quanto ancora dobbiamo sopportare che il marchio italiano sui cancelli dei lager africani e mediorientali sia protetto dal negazionismo nazionale?