La testimonianza
Io divento ingegnere ma il mio amico Ismael è morto
Quando mi chiedono “rifaresti il viaggio sapendo com’è andata?”, rispondo che oggi studio ingegneria meccanica all’università che è quello che ho sempre voluto fare. Se fossi rimasto in Sierra Leone non avrei mai potuto.

Oggi qui con me ci sarebbe dovuto essere il mio amico Ismael. Fate conto che siamo in due qui a raccontare questa storia. Mi chiamo Barry e ho 27 anni. Sono partito dalla Sierra Leone a venti anni. Sono stato rifugiato una prima volta da piccolo, quando con la mia famiglia siamo dovuti scappare in Guinea perché in Sierra Leone c’era la guerra. Siamo tornati a casa dopo 6 anni, ma poco dopo è scoppiata un’epidemia di ebola. E allora non potevamo uscire, andare a scuola, non si poteva fare nulla.
Nella vita ho sempre voluto studiare e ci ho provato in tutti modi a farlo a casa mia ma credetemi era davvero impossibile. Sono andato via senza dire niente ai miei genitori. Non me lo avrebbero permesso. Sapevano che il viaggio è pericoloso e che molti muoiono prima di arrivare in Europa. Dalla Sierra Leone sono andato in Mali, dove ho conosciuto il mio amico Ismael, senza di lui non ce l’avrei mai fatta. Mi ha aiutato in tutto. Con lui siamo arrivati in Niger. In Niger i trafficanti ci hanno portato in una casa in cui eravamo oltre 200 ragazzi. Non ci davano né cibo, né acqua. Stavi lì e aspettavi di partire per la tappa successiva del viaggio. In quel periodo c’era stata la visita del Presidente Macron in Niger per fermare i migranti e non farli arrivare in Europa. Questo aveva complicato le cose. La polizia era molto più attenta. Ci hanno fatto scappare di notte, in fretta, picchiandoci e prendendoci a calci.
Con Ismael facciamo due tentativi prima di riuscire a entrare in Libia. In Libia siamo finiti in un campo con altre centinaia di uomini e donne. In una situazione di schiavitù. Sono stati mesi molto duri. Eravamo trattati come rifiuti umani. Un giorno io, Ismael e altri 5 ragazzi eravamo affamati e non avevamo nulla da mangiare. Decido di andare a cercare qualcosa fuori dal campo. Ma la polizia mi ferma e mi arresta. Vengo messo in carcere per due settimane, mi tolgono il cellulare e i soldi e mi torturano in ogni modo. Quando riesco a uscire torno al campo e lì scopro che Ismael era stato fatto salire su una barca. Altri ragazzi mi hanno detto che ha provato a cercarmi in tutti i modi.
Ero sicuro che ci saremo ritrovati in Italia.
La barca di Ismael è affondata e con lui tutte le persone a bordo. Ho perso così il mio amico. È arrivata la notizia al campo ed è stato terribile. A me la traversata è toccata il giorno dopo. In gommone. Eravamo 170. Sono arrivato a Lampedusa vivo solo perché ci ha soccorso una nave di una ong spagnola. Quando mi chiedono “rifaresti il viaggio sapendo com’è andata?”, rispondo che oggi studio ingegneria meccanica all’università che è quello che ho sempre voluto fare. Se fossi rimasto in Sierra Leone non avrei mai potuto. Ma non lo rifarei perché, se sai prima quello che ti aspetta, non puoi farcela a sopportare tutto quel male. Soprattutto in Libia.
Oggi vivo in un co-housing del Centro Astalli con studenti universitari italiani e rifugiati. Per arrivare all’università, ho fatto gli esami di terza media e la maturità in Italia, lavorando di notte in un albergo e di sera in un ristorante, per poter studiare di giorno. Non è facile. Ma non mollo. Lo devo a me stesso, alla mia famiglia e lo devo soprattutto a Ismael che oggi non è qui con me, anche se avrebbe voluto.
Testimonianza a cura di Donatella Parisi – Centro Astalli