La storia

Il governo Andreotti-Malagodi, quei 377 giorni che furono l’anticamera della reazione

Furono un passaggio drammatico e pericoloso della storia repubblicana. Non ne uscimmo benissimo. Ma potevamo uscirne infinitamente peggio

Editoriali - di Paolo Franchi

8 Giugno 2023 alle 19:00

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Il governo Andreotti-Malagodi, quei 377 giorni che furono l’anticamera della reazione

Mezzo secolo fa, di questi giorni, Giulio Andreotti saliva al Quirinale per presentare le dimissioni del governo che aveva guidato per poco più di un anno, un tripartito Dc – Pli – Psdi sorretto dall’esterno dai repubblicani di Ugo La Malfa. Appena un mese dopo, già giurava un nuovo governo, guidato da Mariano Rumor, destinato a durare ancora di meno. Se non è zuppa è pan bagnato, osserverà distrattamente chi pensa alla Prima Repubblica solo come a susseguirsi di governi deboli, che nascevano, vivevano una vita grama e poi morivano in giovane età sempre per via degli intrighi (alla faccia del popolo sovrano) delle segreterie dei partiti.

E dirà, come spesso gli accade, una sciocchezza. Perché i 377 giorni di vita di quello che la mia generazione ricorda ancora come il governo Andreotti – Malagodi “anticamera della reazione” furono un passaggio drammatico e pericoloso della storia repubblicana. Non ne uscimmo benissimo. Ma potevamo uscirne infinitamente peggio. Sembrava, in quel primo scorcio degli anni Settanta, che dal Sessantotto non fossero passati solo quattro anni, ma un secolo. Strategia della tensione, terrorismo nero, primi vagiti, a sinistra, del “partito armato”; nascita, al Nord, di embrioni di maggioranze silenziose e di blocchi d’ordine, e al Sud (Reggio Calabria) di movimenti di massa a direzione reazionaria; “voto nero” della Sicilia e di Roma nelle amministrative del giugno 1971; elezione di Giovanni Leone a presidente della Repubblica, in dicembre, con i voti determinanti del Movimento sociale. È in questo clima che il 7 maggio del 1972 si va a votare, nelle prime elezioni anticipate del dopoguerra.

La Dc prova ad uscire dallo stallo politico con una virata neo centrista, via i socialisti, dentro i liberali, nel tentativo di contendere a Giorgio Almirante quelli che considera suoi elettori in libera uscita. In qualche misura ci riesce, come si dice nel linguaggio politico dell’epoca nelle urne lo Scudo crociato tiene, ma i voti li strappa soprattutto ai suoi partner centristi. Alla faccia dei proclami democristiani contro gli “opposti estremismi”, Almirante si porta via quasi il nove per cento. È il più grande successo nella storia del Msi, che nel frattempo si è transustanziato in Destra Nazionale, dopo aver aperto le porte di casa non solo ad Achille Lauro, ma pure a militari di alto rango come l’ammiraglio Birindelli e di fedeltà quanto mai incerta alle istituzioni come il generale De Lorenzo.

La debolezza e le divisioni della maggioranza che sorregge il governo neo centrista , inviso non solo ai comunisti e ai socialisti, ma pure ad Aldo Moro, Carlo Donat Cattin e a buona parte della sinistra di Base della Dc, consentiranno ai 56 deputati e ai 26 senatori missini di praticare in molte votazioni parlamentari a scrutinio segreto una sorta di “soccorso nero” ad Andreotti. Ma Almirante è ben diverso dal suo predecessore Arturo Michelini, non si accontenta certo di fare il portatore d’acqua. Cosa ha in mente lo spiega a Firenze, il 2 giugno, mentre a Roma Andreotti è ancora all’opera per varare il nuovo gabinetto, i metalmeccanici si preparano alla battaglia d’autunno per il nuovo contratto e gli studenti stanno sì per andare in vacanza, ma già pensano (erano anni così …) alle lotte che li aspettano alla riapertura delle scuole.

A colpire, e a indignare, è soprattutto, e si capisce, l’appello ai suoi ragazzi dell’uomo che vuol far mettere alla destra neofascista il doppiopetto: “I nostri giovani devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti … e quando dico scontro frontale intendo dire anche scontro fisico”. Ma forse l’affermazione più inquietante è un’altra. “Se il governo continuerà a venir meno alla sua funzione di Stato”, scandisce il leader missino, “noi siamo pronti a surrogare lo Stato”. Curiosamente ma non troppo, è il neo ministro degli Interni, il doroteo Rumor, a cogliere meglio di ogni altro il senso di queste parole. Almirante, dice alla Camera, indica nei “vuoti di potere” dello Stato il terreno dal quale nascono “occasioni di presenza e di iniziativa della destra neofascista che tende a presentarsi, come sempre, come forza sostitutiva”.

Di lì a qualche mese (La Spezia, 15 novembre) sarà lo stesso segretario democristiano, Arnaldo Forlani, che molto più tardi preciserà di non essersi riferito al Almirante, a rincarare la dose. È in corso, sosterrà, “il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia tentato e portato avanti dalla Liberazione ad oggi”, un tentativo dalle radici “organizzative e finanziarie consistenti e solide, di ordine interno e internazionale”. È un uomo che pesa sin troppo le parole, Forlani, lo chiamano il “Coniglio mannaro”: e questo rende la sua affermazione ancora più allarmante.

Ma può essere un governo neo centrista che si dilania sulla tv a colori a mettere in scacco un attacco di questa portata? Non lo crede la sinistra democristiana, che fa quel che può per affrettarne la fine e riprendere, per accidentata che sia, la strada della collaborazione con i socialisti. Non lo crede Pietro Nenni che, a margine della grande manifestazione contro il primo congresso del Msi (Roma, 18 – 21 gennaio 1973) in cui si registra un solo saluto romano, annota nei suoi diari che il pericolo principale non viene dai fascisti, ma dall’interno stesso della Dc. E naturalmente non lo credono i comunisti, che calibrano la loro opposizione (durissima) in Parlamento e nel Paese sulla scorta di un giudizio a dir poco pessimistico sulla natura stessa della crisi italiana.

Alla Dc, anche negli anni della contrapposizione più dura, hanno sempre attribuito, seppure a denti stretti, una natura di partito popolare e di cerniera, dunque di argine verso una destra che ha nella società e nello Stato radici assai profonde e diffuse. Che fare, adesso che questa cerniera rischia di saltare? Si può puntare, certo, alla radicalizzazione dello scontro, come chiede a gran voce una sinistra extraparlamentare che nelle piazze grida: “Emmessei fuori legge/a morte la Dc che lo protegge”.

Ma questa appare non solo a Enrico Berlinguer, ma a tutto un gruppo dirigente che è cresciuto alla scuola di Palmiro Togliatti, una prospettiva suicida. Già prima delle elezioni politiche (che pure per il Pci non vanno male, anche se quel mezzo punto percentuale in più non basta a compensare, a sinistra, la disfatta del Psiup), Berlinguer ha indicato la prospettiva che nel settembre del 1973, all’indomani del golpe cileno, si incarnerà nel compromesso storico.

“In un Paese come l’Italia”, ha detto al congresso milanese del partito, “una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi componenti popolari: comunista, socialista, cattolica … La natura della società e dello Stato, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali ma anche politiche e ideali, la profondità delle radici del fascismo (corsivo mio), e quindi la grandiosità dei problemi da risolvere e da fronteggiare, impongono una simile collaborazione”. Un po’ tutti gli hanno risposto picche, dai democristiani e ai socialisti, chi in nome della pregiudiziale anticomunista, chi nella speranza di tornare al governo per rappresentarvi la sinsitra politica e sociale nel suo complesso, chi vagheggiando l’alternativa di sinistra.

E anche a buona parte dei comunisti, ivi compresi molti dirigenti che pure, con l’eccezione di Luigi Longo, non avanzano critiche aperte, sembra un po’ paradossale l’idea che per evitare una deriva reazionaria della Dc la strada migliore sia quella di iscriverla d’ufficio a una “nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista”. Ma da questa linea il Pci non deflette. Promuove la mobilitazione antifascista, ma bada bene a che sia la più vasta e unitaria possibile, si tiene a distanza di sicurezza dalla campagna per lo scioglimento del Msi, guarda in cagnesco chi afferma che “la Resistenza è rossa, non è democristiana”. Si impegna a fondo nella battaglia dei metalmeccanici, che si conclude con il contratto forse più avanzato della storia delle relazioni industriali in Italia, quello dell’inquadramento unico operai-impiegati e delle 150 ore, avendo per bussola l’unità sindacale. Quanto più il governo annaspa, tanto più stringe i rapporti non solo con i socialisti, ma pure con i repubblicani e le sinistre democristiane.

Quando nel giugno del 1973, alla vigilia del congresso democristiano, Aldo Moro e Amintore Fanfani sottoscrivono a Palazzo Giustiniani, portandosi appresso tutti i capi corrente, l’accordo che decreta l’inizio della quaresima per Andreotti e Forlani, e impongono a una platea congressuale ferocemente antisocialista il ritorno al centro-sinistra, nella forma di un quarto governo Rumor, i comunisti per la prima volta evitano di accusare i socialisti di cedimento, e anzi salutano l’evento come una straordinaria vittoria democratica. Almeno in parte hanno ragione.

La Dc d’ora in avanti dovrà riconoscere che il tempo della sua indiscussa e indiscutibile “centralità” sta per finire, cominciando con il togliersi dalla testa l’idea di poter praticare la reversibilità delle alleanze; ma non potrà neanche illudersi che il centro-sinistra cui si sta predisponendo somigli, magari alla lontana, a quello degli anni Sessanta, visto, oltretutto, che i socialisti tornano al governo, sì, ma invocando “equilibri più avanzati”.

Berlinguer comincia a pensare sentirsi in grado di imporre alla Dc di rinunciare agli alibi, e di guardare in faccia una “questione comunista” che, dice, è tornata prepotentemente all’ordine del giorno. La partita tra comunisti e democristiani, rottura o accordo, è appena iniziata, si giocherà nel referendum sul divorzio del 1974, nelle elezioni regionali del 1975, nelle elezioni politiche del 1976, nella breve stagione dell’unità nazionale. A chiuderla provvederanno, tra il 16 di marzo e il 9 di giugno del 1978, le Brigate Rosse. Ma questo, nel giugno di cinquant’anni fa, non può immaginarlo nessuno.

8 Giugno 2023

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