Il "controllo concomitante"
Revisione dei magistrati, le esperienze emblematiche di Albertini e Renzi
L’ex sindaco di Milano realizzò opere meravigliose senza neppure un avviso di garanzia coinvolgendo preventivamente le toghe. E ricordate come l’ex premier salvò l’Expo?
Editoriali - di Tiziana Maiolo
Forse Giorgia Meloni avrebbe dovuto chiedere consiglio a Gabriele Albertini e Matteo Renzi sul problema del “controllo concomitante”, prima di osare contrapporsi a un intero plotone di toghe quale quello dei magistrati della Corte dei Conti. O forse è stato proprio per non incamminarsi su quel viottolo che l’avrebbe resa prigioniera della magistratura nel nome del principio bastardo del fine che giustifica il mezzo, che la premier si è sottratta.
La necessità di spendere nei tempi giusti e bene i 190 miliardi del Pnrr può valere il prezzo di rendersi ostaggio di una burocrazia togata impicciona e con la tendenza a tracimare per sottrarre al governo il potere di fare e di decidere? Giorgia Meloni ha risposto di no, costi quel che costi. Uno dei prezzi da pagare è quello di sentir scivolare nell’aria discorsi di avvertimento, perché “la legalità è a rischio”. Perché nell’aria ci son quelli per i quali è sempre 25 aprile, e bisogna liberarsi di questa “faccetta”, come disse quell’Ingegnere campione di volgarità. E poi ci sono anche quelli che non riescono a togliersi lo straccio di dosso.
Lo “straccio” è, nell’ironia dei corridoi dei palazzi di giustizia, la toga, croce e delizia della giustizia italiana. Federico Cafiero de Raho è uno di questi. Può finalmente parlare il linguaggio della politica in via ufficiale, da quando è diventato deputato. Ma è come se sedesse sempre sullo scranno più alto con un martelletto in mano. Così butta fuori parole di fuoco, sul famoso emendamento e sulla fiducia posta dal governo per la proroga di un anno dello scudo erariale e l’abolizione del “controllo concomitante” da parte della Corte dei Conti sulle spese del Pnrr.
“Rimuovendo gli argini dei controlli -dice l’ex procuratore antimafia-, il governo consente a mafie e corruzione di sguazzare nel fango dell’illegalità”. Ora, se è vero, marxianamente, che l’uomo è ciò che fa, lo è ancora di più, crocianamente, che la forma è sostanza. E l’equiparazione, sul piano penale, della corruzione alla mafia è la rappresentazione scenica dei comportamenti del fu Cafiero procuratore nazionale antimafia. Mentre l’immagine plastica del fango e ancora di più del gesto di “sguazzare”, che cosa rappresentano se non la proiezione della sub-cultura di chi ha espresso il concetto?
Ma è pur sempre una questione di potere. Che la politica ha da tempo perso e di cui le toghe si sono appropriate senza esser state invitate al banchetto. Per questo è sempre utile ripassare la storia, con i due esempi cui abbiamo accennato e che hanno visto come protagonisti due politici abili come Gabriele Albertini e Matteo Renzi e due procuratori di Milano, Saverio Borrelli e Edmondo Bruti Liberati. Due momenti storici diversi tra loro ma anche lontani dalla realtà politica di oggi. Pure affratellati dalla stessa necessità, quella di sviluppare opere importanti e di farlo in fretta. Sapendo di avere i fucili puntati addosso, con la consapevolezza di essere inermi davanti alla forza delle toghe. Costretti a trattare sul “controllo concomitante”, addirittura a sollecitarlo. Due storie parallele, tutte e due poi raccontate dai protagonisti nei loro libri.
L’imprenditore Gabriele Albertini diventa sindaco di Milano nel 1997, candidatura scelta personalmente dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi, colui cui il procuratore capo Saverio Borrelli aveva consigliato di lasciar perdere le ambizioni politiche, se per caso avesse qualche “scheletro nell’armadio”. Il neo-primo cittadino ha l’ambizione di trasformare Milano, e ci riuscirà. Quattro depuratori, la centrale elettronica computerizzata per il controllo del traffico, restauro del teatro alla Scala, passante ferroviario, Polo di Rho della nuova Fiera, nuove otto stazioni di metro, 108 nuovi parcheggi. E la realizzazione del grande progetto della fibra ottica e il cablaggio di tutta Milano. Tutto ciò necessitava grandi investimenti e, secondo il programma politico di un liberale come Albertini, gare d’appalto che coinvolgessero il mondo dell’economia privata.
Serviva un alleato forte. Politico. Il sindaco portava addosso, come zavorra, due zaini pesanti, il fatto di essere un uomo di Confindustria e, peggio ancora, amico di Berlusconi. Aveva alle spalle gli anni di tangentopoli e dei trionfi del pool “mani pulite”. Gioca quindi d’astuzia, fa girare nei salotti giusti la voce di essere un ammiratore dei capitani coraggiosi che avevano sgominato i partiti corrotti della prima repubblica, e i pesci abboccarono. Arrivarono nel suo ufficio Borrelli, poi Davigo e infine Colombo, che gli chiese persino un posto di lavoro a Palazzo Marino. Risultato? Due mandati, quella meraviglia di lavori realizzati e neanche un’informazione di garanzia.
Il prezzo? Molto di più che “controllo concomitante”, anche perché la vera cogestione realizzata in quegli anni, fino al 2006, comportava addirittura la collaborazione con la Procura della repubblica, non con la magistratura contabile. Non erano noccioline i nove miliardi di euro investiti dal Comune, con l’aggiunta dei trenta di investimenti privati. Ma tutto andò liscio. A Palazzo Marino viene formato il gruppo di lavoro chiamato “Alì Babà” (Albertini è sempre stato molto spiritoso), formato da tre funzionari e tre magistrati. Inoltre il problema degli appalti e delle possibili degenerazioni fu affrontato con la stipula di “patti di integrità” che vincolavano coloro che avessero derogato all’impegno a non partecipare in seguito a nessun’altra gara nella zona di Milano. E poi due nuovi istituti, il Direttore generale alla legalità e l’Internal auditing, per valutare la correttezza economico-finanziaria di ogni atto.
Ne è valsa la pena? Sul piano dei risultati certamente si. Nel 1997 probabilmente non si poteva fare diversamente. Di certo però quei depuratori, quella fibra ottica di cui tutti i milanesi godono e si compiacciono, portano addosso le impronte di un rafforzamento della Repubblica Giudiziaria, nata ben prima di tangentopoli e tuttora viva e vivace, come dimostrano le parole arroganti di Cafiero de Raho. E di questo il garantista Albertini è ben conscio. Matteo Renzi si ritrova a Palazzo Chigi nel bel mezzo dei lavori preparatori di Expo 2015, il bando vinto dal sindaco di Milano Letizia Moratti, che era riuscita prevalere sulla concorrenza agguerrita di Smirne e della Turchia di Erdogan.
A Milano nel frattempo c’è stata la svolta a sinistra, e dopo Giuliano Pisapia il primo cittadino è Beppe Sala, un bravo manager, ma che non ha alle spalle l’esperienza conquistata nelle dure trattative sindacali di Gabriele Albertini. Non sa nulla di “Alì Babà” né dei “patti di integrità”. Il premier Renzi racconterà in seguito nel suo libro Il mostro che il sindaco, che era anche commissario alle opere di Expo, a un certo punto aveva persino minacciato di dimettersi. Le opere e gli uomini che le stavano realizzando erano braccati della magistratura e i provvedimenti cautelari fioccavano. Molti appalti erano ormai a rischio.
E’ in quel momento che interviene in salvataggio un vero uomo di potere. Un magistrato, ovviamente, e chi se no? Un Violante o uno come lui, immaginiamo. Colui che darà al presidente Renzi il consiglio giusto: va’ in procura. E lui andò. E salvò, con un semplice caffè bevuto in una saletta riservata all’aeroporto milanese di Linate con il procuratore capo della repubblica Edmondo Bruti Liberati, l’Expo 2015. Tutto legittimo, dice Renzi. Il suo comportamento certamente. E quello del presidente dell’Anac Raffaele Cantone e di una norma ad hoc, un decreto legge che consentì la prosecuzione dei lavori e che permise ad Anac di mandare avanti gli appalti nonostante le inchieste giudiziarie.
E che salvò da una crisi istituzionale, mentre Erdogan stava già scaldando i muscoli. Ma quel che successe da quel momento al palazzo di giustizia di Milano non è altrettanto limpido. Fu chiamato “moratoria” delle indagini, e il termine, usato in alcuni articoli da Frank Cimini sul blog “Giustiziami”, non fu mai smentito, nonostante la palese violazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. E forse bisognerebbe chiedere all’ex magistrato Alfredo Robledo, cui le indagini su Expo furono tolte dal suo superiore, e poi ai membri del Csm del tempo e anche a un ex Presidente della Repubblica, qualche retroscena su quel tipo di “controllo concomitante”, diverso da quello messo in scena da Albertini ma che portò, per altre vie, comunque al risultato.