Il botta e risposta
Scontro tra Meloni e Ue sulla Corte dei Conti
Bruxelles rovina il 2 giugno della premier. Nota polemica della Commissione e risposta furiosa di Palazzo Chigi
Editoriali - di David Romoli
A rovinare una festa che altrimenti sarebbe stata per Giorgia Meloni perfetta ci si è messa Commissione europea, con una risposta del suo portavoce a domanda diretta molto critica con la decisione italiana di sottrarre alla Corte dei Conti il “controllo concomitante”, cioè in itinere e non solo a cose fatte, sul Pnrr. Parole pesanti: “E’ responsabilità delle autorità che gli enti di controllo siano in grado di lavorare. Monitoreremo con grande attenzione cosa prevede la bozza di legge sulla Corte dei Conti”.
La replica di Roma arriva dopo ore: lunga, puntigliosa e palesemente molto irritata. “Il portavoce della Commissione afferma che la Commissione non commenta i progetti di legge. Subito dopo, senza alcun approfondimento di merito, ma seguire considerazioni che alimentano polemiche strumentali che non corrispondono alla realtà”. Il governo chiude la sua dettagliata disamina citando le voci a favore della norma sulla Corte dei Conti: i costituzionalisti Cassese, Mirabelli e Coraggio.
E’ il primo scontro duro e frontale tra il governo e la Commissione europea e certo per la premier è un dispacere che capiti proprio in questa giornata. Non è il 25 aprile, data in cui si celebra o si dovrebbe celebrare la vittoria di un sistema di valori su un altro non diverso ma opposto, ricorrenza della fine di una guerra civile che, per quanto la si possa tirare per i capelli, difficilmente esorta ad andare “tutti nella stessa direzione”. E’ il 2 giugno, festa della Repubblica da sempre venata di orgoglio nazionale e tanto più dopo l’intervento dell’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi che sul concetto di patria non aveva idee molto diverse da quelle dell’attuale premier e si adoperò per adeguare il 2 giugno alla sua visione risorgmentale.
Per la premier non c’è dunque motivo di imbarazzo, al contrario volteggia da un selfie all’altro nel ricevimento sul Colle, scherza con i leader dei sindacati che un giorno sì e l’altro pure la additano come arcinemica ma per l’occasione soprassiedono amichevoli, alza il calice sul balcone del palazzo che fu del Papa Re col primo cittadino della Repubblica. Ha imparato a fare politica nelle assemblee e nelle rissose sezioni dell’ex Msi, la presunta underdog: sa quando è il momento di battere il ferro caldo, ha un istinto allenato a cogliere l’occasione. Dunque non perde l’occasione. La celebrazione deve ricordare che “se ci sia difficoltà o che le cose vadano bene, ne usciamo solo insieme”. Sempre che “ciascuno faccia la sua parte”. “Siamo tutti legati, prosegue, e rendersene conto “è l’elemento culturale che serve per capire che dobbiamo remare tutti nella stessa direzione”.
Sembra la solita retorica che in questi casi sovrabbonda sempre ma non è così. Nelle parole della festeggiatissima premier c’è il senso di una visione e di un progetto molto diversi da quelli all’origine della Repubblica di cui si esalta il genetliaco e della sua Carta costituzionale. La cultura politica dalla quale nacque l’Italia repubblicana riconosceva il conflitto sociale e mirava a metterne a frutto l’energia propulsiva, era consapevole delle differenze tra interessi confliggenti e si proponeva di ricomporli riducendo distanze, sperequazioni e ingiustizie. La “direzione” era il frutto della mediazione di volta in volta raggiunta tra queste spinte in sé divergenti, in una concezione dinamica e progressiva.
Non è a questo che pensa la premier. La visione che ha già più volte illustrato nei suoi discorsi, sia pure a spizzichi e bocconi, è organicista, è un assetto in cui ciascuno deve non solo fare ma anche accettare “la propria parte”, non solo le diverse istituzioni ma anche le distinte fasce sociali. Le conflittualità e gli antagonismi devono evaporare, sciogliersi nell’unità di fondo rappresentata dalla “Patria” e dal suo interesse superiore, inevitabilmente interpretato da chi la Patria si trova a governare.
La pigirizia mentale degli opinionisti politici insiste nel tacciare la destra italiana di “sovranismo”, insulto alla moda. Ma cosa c’è di sovranista nello svendere Alitalia o nel piegarsi senza un sussurro alle logiche europee del rigore? Giorgia Meloni non è sovranista. E’ nazionalista, cosa ben diversa, perfettamente illustrata dal tweet che diffonde a celebrazioni terminate, nel quale rende omaggio “ai caduti che hanno sacrificato la loro vita per la difesa della Patria e per i sacri princìpi di libertà, uguaglianza e democrazia”, poi ringrazia le Forze armate e “tutti coloro che contribuiscono a rendere l’Italia la grandiosa Nazione che è”.
Quanto di questa impostazione, tutt’altro che effimera e solo propagandiostica può piacere a Sergio Mattarella? Probabilmente poco. Il brindisi si è compiuto nello stesso giorno nel quale il governo aveva compiuto il primo vero atto autoritario dalla sua nascita, il bavaglio imposto nel giro di 24 ore, con un emendamento cotto e mangiato, alla Corte dei Conti in materia di Pnrr. Il presidente anche nel discorso di ieri ha trovato modo di marcare una certa distanza ricorrendo a un espediente astuto: ha dedicato il suo breve discorso agli emigrati italiani, ricordando quale grande controbuto diedero ai Paesi che lo accolsero. Sin troppo evidente l’allusione indiretta ma precisa, l’esortazione a ricordare quanto quel contributo sia necessario e prezioso anche ora, quando l’Italia è il Paese ospite.
Ma oltre questo livello il presidente non va e, a meno che la situazione non diventi clamorosa e insostenibile, non andrà. Perché oggi c’è un tema che fa premio su tutto e di fronte al quale tutto il resto passa in secondo piano: la guerra. Un po’ per ragionamento politico sofisticato, un po’, forse, anche con una spinta da parte della fortuna, Giorgia Meloni ha puntato tutto su quella carta, farsi garante della piena fedeltà atlantica di un’Italia altrimenti a rischio di smottamento. E’ una carta che sinora si è dimostrata per lei di gran lunga la più vincente di tutte. Cameriere, champagne!