Il socialismo liberale
Perché Elly Schlein deve riscoprire Gaetano Salvemini: per una politica consapevole del limite e della tradizione
Cultura - di Filippo La Porta
E se la sinistra ripartisse da Delfi? Sulle pareti del tempio di Apollo accanto al più noto “Conosci te stesso” c’era l’altra fondamentale iscrizione: “Nulla di troppo”. Su questa necessità di definire un concetto di limite – cosa ben diversa da ogni “moderatismo” – si edificò l’intera civiltà greca, e qualsiasi altra civiltà finora sulla faccia della terra. Anche l’idea più vera e buona superando un limite diventa falsa e cattiva. L’idea di rivoluzione, in sé nobilissima, può trasformarsi – priva dell’idea di misura – in dispotismo sanguinario, come dimostrò Camus ne L’Uomo in rivolta, dove ci insegna un singolare radicalismo del limite. Pensiamo anche al “comunismo”, che resta una parola bellissima: però nelle sue realizzazioni concrete si è convertita volentieri in regimi autoritari, per la smania di raddrizzare a tutti i costi il legno storto dell’umanità.
Perfino l’idea di patria, che conserva qualcosa di meravigliosamente puro (si ama qualcosa per come è, non per come dovrebbe essere) può degenerare in quella di nazione, impastata storicamente di aggressività e primato etnico (per Umberto Saba l’una sta all’altra come la salute alla nevrosi). E così oggi: la discussione sull’ambiente, sull’economia, sul lavoro, sui diritti, sulla migrazione, sulla scienza, sulla giustizia, sulla identità di genere, sul rapporto tra individuo e comunità, ha l’obbligo di far coesistere radicalità di visione ed elaborazione di una idea di limite, benché mutevole, non fissata una volta per tutte. Per questa ragione mi ha fatto piacere che Mario Tronti abbia citato – un po’ sorprendentemente – Gaetano Salvemini, direttore della prima Unità agli inizi del Novecento quando era una rivista e non il giornale fondato da Antonio Gramsci.
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In fondo tutto il filone giellista, e poi azionista, è sempre stato guardato con diffidenza – per il suo presunto moralismo predicatorio – da parte dei comunisti e in particolare da parte della ferrigna “scienza” operaista. Eppure a Salvemini e a quel filone dovrebbe oggi guardare Elly Schlein, leader di un partito orfano di ogni tradizione, soprattutto per la necessità di dare alla politica un fondamento etico. In parte ci provò Berlinguer con la “questione morale”, nel 1981, ma affermando allora una insostenibile superiorità “antropologica” dei comunisti – chi si sente superiore non fa nessuno sforzo per esserlo! – , mentre Carlo Levi negli anni Trenta sul giornale di Giustizia e libertà avvertiva gli antifascisti che dovevano eliminare il fascismo anzitutto “dentro di sé”. Il socialismo liberale salveminiano, di ispirazione mazziniana, può oggi apparirci un poco vintage. Eppure la sua proposta di una politica interamente laica, consapevole del limite, va intesa come antidoto ai dogmi e alle mitologie, alle utopie astratte e a ogni pretesa escatologica di creare “l’uomo nuovo”. Per lui il marxismo, insuperabile come dottrina economica, era una “droga meravigliosa” che prima “sveglia gli animi dormienti e poi li rimbecillisce nella ripetizione di formule che spiegano tutto e non dicono nulla” (si tratta della vicenda del marxismo per la mia generazione: è stato vissuto come una religione, con il suo catechismo e la sua liturgia).
Vittorio Foa, anche lui proveniente dalla tradizione azionista, ha insistito su una cultura del limite, estranea alla modernità e a una immagine perversa di sviluppo come crescita continua, tanto più sapendo che “il consumismo non è stato voluto solo dai capitalisti ma anche dai lavoratori”! Da quella cultura discende poi un’ottica gradualista perché la gradualità non è altro che “un’attenta considerazione degli altri”. In anni di “espropri proletari” volle ricordarci che l’illegalismo di massa è un forte sostegno all’illegalità del potere. Anche qui, la rivolta – sacrosanta – contro un potere spesso arbitrario deve sapersi fermare: la norma, che si voleva infrangere, non è rapporto tra potere e cittadino ma rapporto fra le persone. Inoltre Foa non amava l’utopia, in quanto immaginaria soluzione di ogni conflitto in un tempo futuro (il sol dell’avvenire) totalmente separato dal presente, e dunque troppo docile a fantasie illimitate.
Per Salvemini le istituzioni democratiche “prendono gli uomini come sono”, e certo “non offrono una soluzione a tutti i mali”. Da una parte concordava con un conservatore come Burke, quando afferma che la felicità perfetta è un mito, ma dall’altra non approvava la rassegnazione quietista dei conservatori allo status quo: “Se nessun nato di donna può sfuggire al dolore, ogni nato di donna può aspirare a ridurre la quantità di dolore a cui non può sfuggire”. Ecco, questo obiettivo di ridurre il dolore, accettando il limite connaturato alla condizione umana, però spostandolo ogni volta più in là, vi sembra un programma minimalista, privo di glamour, incapace di scaldare i cuori?