Il legame tra i due scrittori
Quando Joyce fece rinascere Italo Svevo: “Grazie a lui sono risorto come Lazzaro”
Cultura - di John McCourt

È probabile che non sarebbero mai venuti alla luce due dei più grandi capolavori del romanzo modernista, l’Ulisse di James Joyce e La Coscienza di Zeno di Italo Svevo, pubblicati rispettivamente nel 1922 e 1923, se i due autori non si fossero incontrati a Trieste nell’autunno del 1907.
Svevo aveva già scritto e pubblicato due dei tre romanzi che completò prima di morire, Una vita (1892) e Senilità (1898) ma entrambi ricevettero scarsissima attenzione critica o popolare e lo scrittore triestino era sempre meno convinto di poter ottenere un successo letterario. Il venticinquenne Joyce, invece, era appena tornato a Trieste dopo aver vissuto sei mesi frustranti a Roma – “un vecchio cimitero” – dove lavorò in banca. Al momento del primo incontro con Svevo, aveva pubblicato soltanto tre racconti su una rivista irlandese The Irish Homestead che sarebbero stati inclusi sette anni dopo, e alla fine di un lungo e difficilissimo travaglio, nella raccolta di racconti brevi, Dubliners (Gente di Dublino). Joyce stava ancora componendo Stephen Hero, la prima versione di quello che sarebbe diventato A Portrait of the Artist as a Young Man (1916).
Nonostante i tanti stimoli offerti dalla vita culturale della città che Joyce chiamò “la nostra bella Trieste”, entrambi gli scrittori furono frustrati dai loro insuccessi letterari ma la ragione del primo incontro non aveva niente a che fare con la letteratura. Joyce fu contattato da Svevo nella sua allora veste principale di insegnante di lingua inglese. In realtà Joyce fu l’ennesimo tutore assunto con il compito di migliorare l’inglese di Svevo per la sua attività nella fabbrica del suocero, la ditta Veneziani. A partire dal 1901, Svevo si occupò della fabbrica di vernici a Charlton in Inghilterra dove spesso si recò per lunghi periodi. Come scrisse Svevo nel Profilo autobiografico: “Intorno al 1906 egli sentì il bisogno per i suoi affari di perfezionarsi nella lingua inglese. Prese perciò alcune lezioni dal professore più noto che ci fosse a Trieste: James Joyce… che dovette insistere perché gli fossero consegnati per la lettura i due vecchi romanzi. Una vita gli piacque meno. Invece ebbe subito un grande affetto per Senilità di cui ancora oggidì sa qualche pagina a memoria”.
Già durante la prima lezione svolta a villa Veneziani nel quartiere di Servola a Trieste, l’intesa fra i due fu immediata anche se il rapporto sarebbe rimasto, per sempre, abbastanza formale (si davano sempre del “lei”). Presto Joyce lasciava stare i doveri dell’insegnante o “mercante di gerundi” per usare il termine coniato da Svevo, e le lezioni, per citare la moglie Livia Veneziani, “si svolgevano con un andamento fuori del comune. Non si faceva cenno della grammatica, si parlava di letteratura e si sfioravano cento argomenti. Joyce era divertentissimo nelle sue espressioni e parlava il dialetto triestino, come noi, anzi un triestino popolare appreso nelle oscure strade di città vecchia dove amava sostare”. Presto Joyce lesse il testo di The Dead, che aveva appena scritto, a Svevo e a sua moglie. Entrambi rimasero fulminati. Svevo poi gli regalò una copia di Senilità e Joyce, appena finita la lettura, gli disse: “Ma lo sa che Lei è uno scrittore negletto?” Come racconta, Stanislaus Joyce (il fratello di James): “Schmitz si commosse fino alle lacrime quando il suo giovane insegnante, squattrinato ma sicuro di sé, dotato di eccellente memoria, recitò brani del romanzo in questione, per il quale più tardi, quando venne tradotto in inglese, egli stesso suggerì il titolo As a Man Grows Older”.
Fu lo stimolo di cui Svevo ebbe bisogno. Svevo spesso accennava alla resurrezione di Lazzaro, perché l’incoraggiamento di Joyce risvegliò in lui la volontà di scrivere (anche se in realtà non aveva mai smesso) e soprattutto la fiducia nelle sue capacità, come spiegò nella prefazione alla seconda edizione di Senilità nel 1927: “Questa seconda edizione di Senilità fu resa possibile da una parola generosa di James Joyce, che per me, come poco prima per un vecchio scrittore francese (Edoardo Dujardin) seppe rinnovare il miracolo di Lazzaro. Che uno scrittore sul quale incombe imperiosa l’opera propria, abbia saputo più volte sprecare il suo tempo prezioso per favorire dei fratelli meno fortunati, è tale generosità che, secondo me, spiega l’inaudito successo ch’egli ebbe, poiché ogni altra sua parola, tutte quelle che compongono la sua vasta opera, furono espresse dallo stesso grandissimo animo”.
Ormai figura chiave a Parigi, negli anni Venti capitale della letteratura mondiale, Joyce si diede da fare per la traduzione e la promozione del terzo romanzo del suo amico triestino. Ebbe un ruolo fondamentale nella rivalutazione della scrittura di Svevo. Va ricordato che quando fu pubblicato l’ultimo libro, Svevo aveva più di 60 anni e si era ormai abbastanza rassegnato a morire senza il riconoscimento dai suoi connazionali. Stanislaus ricordò il ruolo di Joyce: “Va notato che per mio fratello la cosa d’importanza primaria era la soddisfazione dell’artista per la propria opera: il successo presso il pubblico era, invece, una faccenda del tutto secondaria”. Comunque, Joyce sollecitò alcuni illustri critici francesi (come Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud) e alcuni brani di Senilità e de La coscienza di Zeno vennero pubblicati in riviste francesi con recensioni positive che facilitarono l’inizio di una presa di coscienza dell’importanza di Svevo anche in Italia. Crémieux descrisse i protagonisti dei romanzi di Svevo in termini che funzionerebbero anche per ritrarre i tratti di Leopold Bloom: “Analista meticoloso, Italo Svevo descrive eroi timidi, inetti e turbati dagli scrupoli ma allo stesso tempo zelanti per la perfezione, il successo e la felicità, fratelli triestini di Charlie Chaplin. Ogni atto, ogni decisione di questi personaggi è accompagnata da esitazioni, dubbi e un’infinita varietà di complicazioni psicologiche, ma tutte – anche le più drammatiche – sono coronate da un alone di umorismo e ironia”.
Joyce sollecitò anche Giuseppe Prezzolini, che non colse l’importanza dell’opera di Svevo ma fortunatamente informò Eugenio Montale il quale diventò il primo letterato di alto livello a sostenere la causa dello scrittore triestino: “Italo Svevo, scrittore assai amato da alcuni dei migliori italianisants stranieri e ignoto in patria, costituisce il caso più singolare che offre oggi la nostra repubblica libresca” scrisse Montale su Il Quindicinale nel 1926, aprendo la strada per un recezione più positiva della opere in Italia. Come commentò Renzo Rendi (segretario di Prezzolini) nelle pagine del New York Times dopo la scomparsa di Svevo nel 1928: “What renown is his, however, is not due to his readers but to James Joyce” (“La sua fama, tuttavia, non è dovuta ai suoi lettori ma a James Joyce”).
Joyce fu, notoriamente, poco generoso verso altri scrittori. Allora ci viene naturale chiederci del perché del sostegno alla “causa” Svevo? A parte l’amicizia e il sostegno materiale e spirituale che Joyce ricevette dall’amico triestino, va ricordato che Svevo fu il prototipo per il personaggio dell’ebreo-cattolico, ungherese-irlandese Leopold Bloom. Di nuovo, citiamo Stanislaus: “In un modo strano e piuttosto divertente … Svevo ebbe una parte nell’Ulisse. A mio fratello servivano vari dettagli per completare la figura del personaggio centrale, l’ebreo Leopold Bloom. Fu Italo Svevo a fornirgli molte delle informazioni di cui aveva bisogno”. E Svevo fu contento del risultato: “Noi amiamo il piccolo ebreo che ci esilara e desta la nostra compassione meglio che il dotto e arrogante Stefano”.
Come Svevo, Joyce si sentiva poco apprezzato in patria, erano entrambi considerati poco patrioti (Svevo era italiano per lingua e fede politica, austro-tedesco per discendenza e formazione culturale, austriaco per cittadinanza, ebreo per religione ma convertito – per far piacere alla moglie – al cattolicesimo. Una personificazione della mistura triestina che tanti irredentisti volevano negare). Le opere di Joyce e Svevo furono criticate perché stavano fuori dai soliti schemi e non rispettavano i confini delle letterature nazionali. Nessuno dei due rispettava le norme più o meno accettate per il romanzo ma cercavano un modo per rappresentare la complessa interiorità dei loro protagonisti. Joyce capì quanto ci fosse di innovativo nel romanzo di Svevo e, in qualche modo, seppure il termine non esisteva ancora, lo collocava nel campo del modernismo, tra i pochi che, consapevolmente o meno, rispondevano all’esortazione di Ezra Pound: “Make it new!”
*John McCourt è Magnifico rettore dell’Università degli Studi di Macerata