La svolta socialista del 1978
Proudhon? Craxi fu coraggioso: liberò il Psi dal giogo comunista
La scelta del leader socialista non fu frettolosa, come gli si rimprovera su l’Unità, ma meditata. In quel difficile ‘78, Bettino affrancò il partito dalla lotta di classe in favore di un maturo riformismo
Politica - di Stefania Craxi
Nell’estate del 1978 la sinistra italiana si trovò in un passaggio storico: anni di crisi economica, terrorismo, instabilità istituzionale e un sistema internazionale in trasformazione richiedevano una ridefinizione radicale di linguaggi, riferimenti e strategie. In quei “55 interminabili giorni” dell’affaire Moro, la divaricazione fra la “Chiesa comunista” e il nascente gruppo dirigente socialista non fu tattica; investì valori, rapporti internazionali e l’idea stessa di socialismo, contrapponendo la “ragion di Stato” al “valore della vita” dell’umanesimo socialista.
È in questo quadro, in questo drammatico contesto storico, che si inserisce la scelta di Craxi di ingaggiare una battaglia culturale a tutto campo con il Pci, rispondendo, il 27 agosto 1978 su L’Espresso, alla rivendicazione berlingueriana (sic!) della ricca “lezione di Lenin”. Ebbene, quella scelta non fu né un capriccio ideologico, né tantomeno frutto, come scrive Duccio Trombadori, «di una concezione fin troppo sbrigativa delle idee e del modo con cui esse vanno trattate» di Craxi, ma pose le basi di un nuovo pantheon del socialismo riformista, pluralista e liberale che si sganciasse definitivamente dall’ortodossia marxista. Trombadori rimprovera a Craxi di avere “rispolverato Proudhon” come “clava” contro il leninismo-gramsciano, sostenendo che sarebbe bastato richiamarsi alla tradizione gradualista del socialismo democratico (Treves, Modigliani, Bernstein, Mondolfo, Kautsky, Hilferding, Luxemburg, Nenni, Lombardi, Giolitti) per smontare il “cripto-leninismo” del Pci.
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Ma questa obiezione trascura la voluta funzione strategica che ebbe il riferimento a Proudhon nel 1978. Craxi, grazie al contributo di un intellettuale di vaglia quale Luciano Pellicani, non cercava un mero restyling dottrinario o una semplice diversificazione dai comunisti italiani: mirava a compiere una “ropture” radicale con l’egemonia ideologica del marxismo-leninismo e con la sua eredità gramsciana, riaffermando l’inconciliabilità tra leninismo e pluralismo, ridisegnando l’albero genealogico del socialismo italiano attingendo alle dottrine libertarie e al riformismo. Proudhon, in questo quadro, servì a Craxi come pietra d’inciampo contro l’ortodossia: un autore ottocentesco non canonico per il comunismo, funzionale al leader socialista per ribadire che il socialismo occidentale è altro dal socialismo sovietico cui si richiamava il Pci, e che la libertà viene prima della “ragion di apparato”. Il “Vangelo socialista” – così lo titolò L’Espresso – fu quindi l’atto fondativo di una narrazione altra e autonoma della sinistra riformista, che riconnetteva il Psi alle migliori tradizioni risorgimentali, liberandolo dall’ossessione della lotta di classe e dalle illusioni rivoluzionarie, e restituendo al liberalismo, nel solco di Rosselli, il suo significato profondo dentro un “socialismo umanitario”. Inoltre, Trombadori giudica la mossa «draconiana», responsabile di aver radicalizzato la polemica e chiuso «i boccaporti del dibattito culturale a sinistra».
La realtà storica mostra l’opposto: proprio quell’offensiva culturale aprì lo spazio in cui il socialismo democratico italiano poté emanciparsi dall’egemonia comunista e dialogare con la modernità europea, anticipando percorsi di riformismo liberale che, anni dopo, troveranno, ad esempio nel New Labour di Blair, un punto di riferimento di vasta portata. Non si trattò quindi di una improvvisazione “spin-doctoristica” di Pellicani, ma di un’idea profonda, diversa, della sinistra riformista e dei suoi destini. Inoltre, la svolta craxiana non fu improvvisa e repentina. Essa maturò nel tempo: dalla diagnosi del “massimalismo” come malattia del Psi fatta non appena venne eletto segretario di un Psi al lumicino, alla riconnessione con il riformismo turatiano e bernsteiniano, passando solo infine al rapporto fra socialismo e leninismo. È questa coerenza di elaborazione politica e culturale, questa stratificazione di idee e visione, che rende il richiamo a Proudhon non un feticcio, ma un segno di libertà intellettuale e di rottura dell’egemonia comunista. Trombadori ricorda l’ironia di Marx nella Miseria della filosofia e accenna perfino a una presunta “punta” antiebraica in Proudhon (guardare alla sinistra di oggi, no?), per concludere che non fosse autore teoricamente solido da vestire sul Psi.
Senza rimuovere limiti e ombre dell’autore francese, il punto è come Craxi usò Proudhon: non come catechismo, ma come emblema di un socialismo antidogmatico, attento a libertà, pluralismo, contrattualismo sociale e decentramento; una genealogia che, nel linguaggio politico del 1978, segnava il confine netto con il centralismo democratico proprio della tradizione togliattiano-gramsciana. Che vi fossero nel Pci fermenti revisionisti (lo stesso Trombadori ricorda il suo intervento su «Rinascita» nel 1977 e la successiva replica) conferma proprio l’opposto della tesi sostenuta, e dimostra quanto fosse necessario uno shock radicale per accelerare il chiarimento. Senza quella sfida pubblica, il dibattito sarebbe rimasto nel cassetto più a lungo, e la sinistra italiana avrebbe tardato ad assumere il pluralismo liberal-democratico come criterio e non come concessione. La “colpa” di Craxi non fu quella di agitare «all’impazzata la clava di Proudhon», ma di aver avuto il coraggio di mostrare i limiti, i ritardi e le contraddizioni del Pci.
Egli ebbe l’ardire di contrastare sul piano delle idee, ancor prima che su quello politico, l’egemonia culturale comunista, una cappa opprimente e intoccabile che ha soffocato i destini della sinistra italiana e fin lì aveva impedito al socialismo riformista, al Psi, di essere pienamente occidentale, democratico e liberale. Fu uno spartiacque della Storia, il discrimine tra un “socialismo irrealizzabile” e un “socialismo del domani”, tra libertà e regimi totalitari. Mal gliene incolse. Craxi divenne, anche per questo, l’emblema da abbattere in ogni modo. E se quella scelta, che rappresentò probabilmente il punto d’avvio del “duello a sinistra”, disturba ancora oggi, a distanza di decenni, i “compagni” che sbagliavano e continuano a sbagliare, ciò significa che egli ci vide giusto. E come sempre, per i comunisti, sbaglia chi ha ragione