La svolta socialista del 1978
Che errore fece Craxi ad aggrapparsi a Proudhon: Berlinguer e quell’inutile clava
Mi domando perché il segretario del Psi assunse quella bizzarra e indigeribile veste ideologica facendola indossare ad un partito la cui tradizione culturale era poderosa ed altamente riconosciuta
Politica - di Duccio Trombadori
Tempo fa, discutendo di Craxi e del mio mai negato stupore per avere egli spolverato Proudhon nell’agosto 1978 (c’era stato di mezzo l’assassinio di Aldo Moro) come ‘vangelo’ del suo nuovo PSI in opposizione a Marx e le sue derivazioni (non solo leniniste), l’amico e compagno Sergio Scalpelli mi ha fatto notare che quella era farina dello spin doctor Luciano Pellicani e che, in ogni caso, in quel tempo Enrico Berlinguer ancora difendeva la bandiera del ‘leninismo’.
Vorrei far notare a Scalpelli che quanto lui afferma, per quanto corretto, risulta alla fi ne una semplificazione eccessiva del modo di pensare di Berlinguer; il quale procedeva sempre per piccoli passi, secondo una via revisionista tipica del PCI che rovesciava il metodo ‘gattopardesco’: cambiare tutto nei fatti senza che poco o nulla sembri cambiato in apparenza…Questa ‘cautela’ berlingueriana non rispondeva però soltanto alla legittima preoccupazione di tenere unita l’area di consenso al PCI senza evitare brusche fratture ideologiche. In verità, Berlinguer era legato alla logica del ‘centro’, di scuola tipicamente togliattiana, preoccupato soprattutto di evitare cedimenti di principio alla ‘socialdemocrazia’ nelle opposte versioni di ‘destra’ e di ‘sinistra’. Era questo il limite del suo ragionare. Era questo ‘centro’, quale cuore pulsante del PCI e del suo gruppo dirigente, che occorreva preservare, per marcare la distanza incolmabile del modo d’essere del partito comunista, a tendenza centralista-autoritaria, da quello socialista, a tendenza democratico-libertaria.
Riassunta sommariamente, la posizione di Berlinguer era perciò incompatibile anche con la tradizione marxista e socialdemocratica del PSI, perché il PCI rilevava la sua fonte ideologica non direttamente da Lenin, ma dalla sua variante italiana, in continuità col pensiero politico di Antonio Gramsci. Va da sé che Gramsci ambì ad essere, e in buona parte fu, il ‘Lenin italiano’. Non tanto perché di Lenin copiò le idee ( ne ebbe anche di molto interessanti e originali) quanto perché a Gramsci si deve la formazione del gruppo dirigente bolscevico del comunismo italiano, costruito attorno a un ‘centro’ (autonomo, separato e distinto dalle ali di ‘destra’ e di ‘sinistra’) cui spetta per investitura il comando politico e ideologico del partito. Questa concezione di ‘aseità del centro’ -da cui l’organizzazione detta del ‘centralismo democratico’- era ciò che premeva difendere e che Berlinguer custodì fi no alla fi ne dei suoi giorni. Questa notazione è suffi ciente per dire che sarebbe bastato a Craxi rivendicare le ben note radici gradualiste del marxismo di matrice socialista e di tutta una profonda e vasta letteratura in merito (dei Treves, dei Modigliani, dei Bernstein, dei Mondolfo, del ‘rinnegato’ Kautsky, degli Hilferding, di Rosa Luxemburg, di Nenni, Lombardi e Giolitti) per avere ragione del cripto-leninismo di marca gramsciana cui il PCI di Berlinguer faceva esclusivo riferimento.
Craxi invece rispolverò Pierre Joseph Proudhon, che ebbe i suoi meriti come agitatore del socialismo francese, ma non ebbe mai grandi pretese teoriche, e fu oggetto di ironia sarcastica da parte di Marx ne ‘La miseria della filosofia’ (se non ricordo male), ed era segnato perfino da una sintomatica punta di antiebraismo… Mi domando ancora oggi perché Craxi si adattò ad assumere quella bizzarra e indigeribile veste ideologica facendola indossare ad un partito come il PSI, la cui tradizione culturale era poderosa ed altamente riconosciuta (non faccio nomi per brevità). Credo che avesse una concezione fi n troppo sbrigativa delle idee e del modo con cui esse vanno trattate. Il che, per un capo politico, non è un pregio. Craxi non voleva avviare un percorso di confronto ideologico e culturale che amalgamasse le tradizioni dei due partiti, effettuando quella benefi ca operazione maieutica che separa da una cultura politica ciò che è ‘vivo’ da ciò che è ‘morto’. Come invece si sarebbe potuto e dovuto fare anche a proposito della fi gura di Antonio Gramsci, di cui era già ben stato messo in evidenza il vizio “leninista” (dai socialisti Bobbio e Salvadori, in primis), senza però tralasciare la ricca e profonda sua capacità di indagine sul corpo vivo della storia politica e culturale italiana, le sue forme di organizzazione e propaganda, le aggregazioni di consenso popolare, etc Bettino Craxi si servì dello stracotto di Proudhon solo per radicalizzare uno scontro politico anche sul piano della cultura, stabilendo uno spartiacque drastico in luogo della contiguità ideologica: o con me (e con Proudhon) o contro di me (e con Lenin-Gramsci).
Accadde anche per questa draconiana cesura, che impediva la mediazione implicita necessaria ad ogni serio confronto culturale, che le parti socialista e comunista si distaccarono facendo salire la polemica ai massimi livelli nel cuore degli anni Ottanta, al punto che da parte comunista si giunse ai cartelli con ‘trippa alla Bettino’ nelle feste de l’Unità, per rendere la partita dell’ odio politico sempre più accesa. Fece bene, Bettino Craxi, a chiudere in questo modo anche i boccaporti del dibattito culturale a sinistra? Fece bene a facilitare l’arrocco ideologico dello stesso gruppo dirigente del PCI tanto che solo dopo un decennio (1989) si decise -e malamente- a mollare gli ormeggi del suo ‘centrismo’ gramsciano e togliattiano? Secondo me fece male, molto male. E lo dico proprio perché non pochi di noi, che allora eravamo impegnati nel PCI, avremmo volentieri voluto una fusione di intenti con il PSI in funzione di un ‘revisionismo socialdemocratico’ di cui sentivamo matura la profonda esigenza. Capitò per esempio a me, un anno prima del saggio craxiano su Proudhon, di scrivere su Rinascita la mia opinione riguardo al ‘leninismo’ di Gramsci e della necessità del suo ‘superamento’ in ordine ad una concezione politica del pluralismo socialista in senso liberal-democratico (“ripensare la tradizione senza paura del nuovo”, n 9 di rinascita del 1977).
L’articolo rimase parecchio tempo nel cassetto, fino a quando non venne pubblicato. E mi replicò con una lunga lettera un compagno di Cremona, Fausto Sorini, imputandomi di avere ceduto alla socialdemocrazia e di abbandonare la ‘via leninista’. Gli risposi contestualmente rivendicando le idee esposte nell’articolo e va dato atto a chi dirigeva Rinascita-mi pare proprio Adalberto Minucci- di avermi consentito la replica, sposando di fatto i miei argomenti ‘revisionisti’. A quanto ne so, il compagno Sorini, uscì poi dal PCI assieme ad Armando Cossutta e fu un dirigente di Rifornazione Comunista. Ho fatto questa citazione personale per dire che nel PCI e nel movimento socialista le idee camminavano in più direzioni verso approdi socialisti e democratici. Si trattava di farle camminare, don la dovuta fermezza, sapienza e intelligenza. Non si doveva piuttosto radicalizzare la polemica come elefanti in una cristalleria. Mi dispiace che Bettino Craxi si sia invece comportato in questo modo, agitando all’impazzata la ‘clava di Proudhon’