Il docufilm alla Festa del cinema di Roma
Intervista a Dario Brunori: “Vivere in un paese in Calabria non è una zavorra, le radici servono a espandersi”
Diretto da Giacomo Triglia, il docufilm esplora il percorso creativo che ha portato alla nascita dell’omonimo e splendido album del cantautore. “Vivere in un paese, essere padre, non sono limiti. Essere radicati in qualcosa è come per l’albero: è ciò che ti permette di espanderti”
Interviste - di Chiara Nicoletti
Alla ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma come Special Screening in attesa di approdare prossimamente sulle reti Rai, arriva Brunori SAS – Il tempo delle noci, documentario diretto da Giacomo Triglia che si immerge nell’universo creativo e personale di Dario Brunori, con cui il regista da tempo condivide un percorso di collaborazione artistica. Partendo dalla genesi del suo ultimo album, L’Albero delle Noci, il documentario racconta un periodo segnato da dubbi, crisi artistiche e dal desiderio di ritrovare un senso, dentro e fuori dalla musica.
Al fianco di Brunori, nel film e in questo percorso, il produttore artistico Riccardo Sinigallia, che dà voce, a volte più dello stesso protagonista, al suo percorso di rigenerazione. Spaziando e saltando da immagini più intime, casalinghe, che ritraggono Dario Brunori, compagno, padre e viticoltore, si passa ai concerti e alla prova difficile di Sanremo in un mix che non solo racchiude l’essenza dell’artista Brunori SAS ma si interroga, in maniera più generale, sulla possibilità di lasciare tanto spazio al proprio genio creativo quanto alle radici e ai piccoli-grandi gesti di rassicurante normalità della vita quotidiana. Incontriamo Dario Brunori per una breve chiacchierata sui temi del film e sul suo cammino di artista fatto attraverso la sua musica e questo documentario.
Un film questo che parla di un suo momento di crisi che, come dice, è fisiologico. Come è nato poi il desiderio di rigenerazione che testimoniate in Il tempo delle Noci?
Penso che la crisi nasca dal desiderio della rigenerazione. E quindi che in realtà, il motore della crisi sia proprio l’idea di rigenerarsi, di non rimanere nella zona di comfort, nella reiterazione di un cliché. Poi, questa cosa non è che penso di averla raggiunta col disco L’albero delle Noci, ma raccontiamo anche questo, cioè la difficoltà, la sofferenza che c’è nell’andare a ricercare la scomodità perché nella comodità probabilmente non trovi più quella soddisfazione che ti ha fatto iniziare a fare le cose. Sicuramente questo percorso di rigenerazione non è un percorso che si compie in un’opera sola, però già il tentativo di rigenerazione o comunque il tentativo di mettersi in gioco in quella direzione, che per me è stato anche collaborare con Riccardo Sinigallia, fargli mettere mano nelle mie cose, aprirmi completamente, affidarmi ad un artista come lui che quindi, comunque, ha una modalità per cui mi sposta, non è stato facile. Ecco, questo secondo me già vale la pena di aver fatto insieme questo percorso. Poi magari non sono e non siamo riusciti in tutte le canzoni a farlo perché riconosco che nell’opera c’è comunque anche roba che somiglia molto al me di sempre, ma è anche giusto perché la rigenerazione non è una rivoluzione: è un passaggio, un divenire.
Nel film parla anche del come le cose sono cambiate da quando è diventato padre. Come è cambiato il suo modo di vedere la vita, vivere la sua creatività. Le ha regalato una prospettiva diversa?
Sì, nel film, meglio di me forse lo racconta Riccardo. Io penso che diventare genitore cambi la gerarchia delle tue priorità. Quando hai un figlio o una figlia, questa cosa, se inizialmente può sembrarti un male perché toglie tempo alla tua ossessione, però ti fa capire anche che invece il tempo che hai a disposizione per dedicarti alla composizione, alla scrittura, è un tempo prezioso per cui screma molte cose che non hanno che non hanno utilità. Dall’altra parte, è un’altra forma di radicamento, cioè L’albero delle noci è un albero proprio perché non si parla di alberi casualmente, c’è in te una necessità di radicamento. Per tanto tempo ho pensato che il diventare padre o anche solamente il fatto di vivere in Calabria, fossero delle cose che mi bloccavano. Invece sono diventate, appunto, le radici necessarie ad avere il nutrimento per andare, per espandersi. Quindi, in questo senso, sono abbastanza convinto che il documentario renda bene questa idea della necessità della radice che non è appunto zavorra. Vivere in Calabria non è una zavorra, avere una cantina di vini non è una zavorra, avere un figlio non è una zavorra, stare in una condizione di vita ordinaria in un paese piccolo di 2000 abitanti non è una zavorra, può non esserlo se hai una certa natura.
Durante Sanremo l’anno scorso, in un video con Michela Giraud, avete menzionato il nostro giornale, ad indicare ironicamente il suo orientamento politico e le sue idee. Nel film lei scherza sul suo essere un cantautore nazional popolare. Scherzi a parte, sente di rappresentare un certo tipo di ideali e di pensiero politico?
Nel finale del video che lei cita, io dico a Michela: “fammi sentire la sinistra” e lei mi risponde: “Dario, non so se lo sai, ma la sinistra non c’è”. Penso che abbiamo detto molto in quel video, ironicamente. Penso che sia chiara la mia posizione, anche solo dal cliché che io prendo in giro in quel video, l’occhiale, la barba, ma soprattutto anche il modo in cui noi facciamo le cose. Penso che il documentario abbia in sé comunque anche un messaggio politico cioè, in un contesto in cui spesso la produzione musicale viene vista quasi come una cosa cotta e mangiata, che si fa in uno studio, ci si preme una cuffia sulle orecchie e si canta, per poi andare subito sull’altra parte della faccenda, noi abbiamo mostrato invece il tempo che ci vuole e che noi desideriamo che ci voglia, per fare una determinata opera. In questo senso, quindi, penso che abbiamo fatto un’operazione anche politica nel nostro piccolo.