L'intervista
Gad Lerner: “Israele non può fidarsi dei ‘nuovi amici’ della destra mondiale, Gaza una catastrofe e un laboratorio”
A Roma, dopo il suo discorso in cui aveva rivendicato le sue origini sioniste ha trovato "un popolo di una civiltà e di una sensibilità ammirevoli". Non conta più gli incontri per parlare del suo libro sulla Striscia: "Mi ha cambiato la vita, la smettessero di collegare Hamas alla Resistenza"
Esteri - di Antonio Lamorte
Figuriamoci se Gad Lerner poteva farsi intimorire da “qualche fischio” in una Piazza San Giovanni dove secondo gli organizzatori di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi Sinistra si erano raccolte, sabato 7 giugno, circa 300mila persone per manifestare contro il massacro in corso nella Striscia di Gaza. “Ho vissuto l’angoscia del 7 ottobre come tutti quelli che hanno dei parenti in Israele: ho dovuto decidere in poche ore se continuare un ruolo critico di dissenso o se invece chiudermi nel lutto come hanno fatto amici e colleghi che stimo molto. Invece io no, mi sono espresso fin da subito, non accampo vittimismi e non mi sento un eroe per questo. Ho semplicemente continuato a fare quello che ho sempre fatto”.
Lo farà anche all’Arena Mirastelle nella seconda edizione di Carta Carbonia, nel Sulcis, che lo vedrà ospite nella giornata conclusiva di domenica 27 luglio in dialogo con Paolo Restuccia. “È anche la mia forma di amore e di legame e di aiuto a Israele che per sopravvivere e avere un futuro deve cambiare moltissimo”, dice Lerner in un’intervista a L’Unità a poche settimane da quel discorso nel quale aveva respinto ogni possibilità di assimilazione di Hamas alla Resistenza, definito la convivenza come “unico sbocco razionale” al conflitto israelo-palestinese, ricordato che la sua posizione sionista è radicata nelle sue origini: “Chi della mia famiglia non è riuscito a emigrare laggiù, dove sono nati i miei genitori, è stato sterminato”.
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Lerner definisce sia inaspettata che invadente l’attenzione che ha ricevuto il suo ultimo libro: Gaza Odio e Amore per Israele (Feltrinelli). “Mi ha cambiato davvero la vita. Gli incontri ormai non li conto più, sono diventati il mio impegno prevalente. Per tutta la prima fase della mia vita e della mia carriera giornalistica, il fatto che io fossi ebreo e nato a Beirut contava pochissimo. Adesso è diventato il centro dell’attenzione, non è un buon segno”. Segno però anche di una posizione netta ma non allineata a prescindere in un dibattito come pochi altri polarizzato tra tifoserie. Secondo l’agenzia palestinese Wafa è salito a 58.573 morti e 139.607 feriti il bilancio delle operazioni delle Forze di Difesa di Israele (IDF) nella Striscia dopo i massacri di Hamas del 7 ottobre 2023. Secondo la rivista Lancet già lo scorso gennaio erano oltre 70mila.
Quali reazioni ha registrato dopo il suo discorso alla manifestazione per Gaza?
Quando ho lasciato Piazza San Giovanni ho ricevuto una grande quantità di abbracci e strette di mano. Ho trovato un popolo del centrosinistra di una civiltà e di una sensibilità ammirevoli, neanche per un minuto mi sono sentito rifiutato per le mie radici e per le ragioni che stanno alla base del vissuto sionista della mia famiglia.
Condanna puntualmente l’assimilazione di Hamas a una forma di Resistenza: ci spieghi.
Mi dedico da anni con Laura Gnocchi al Memoriale della Resistenza Partigiana: per me la parola partigiano è una parola meravigliosa ma credo si debba allo stesso tempo sfuggire a ogni semplificazione e sbrigativa tifoseria. Continuo a pensare che Hamas sia una sciagura cresciuta in seno al popolo palestinese. Quelli che parlano del 7 ottobre come un episodio di Resistenza mi devono citare un solo episodio della Resistenza che abbia pianificato un massacro del genere: la smettessero, anche nel nome del popolo palestinese che dal 7 ottobre ha avuto solo lutti e sciagure come mai prima. Allo stesso tempo però ricordo alle comunità ebraiche che le nostre radici in Italia sono nella laicità e nell’antifascismo: prima che sbarcasse a Taranto la Brigata Ebraica, centinaia e centinaia di ebrei italiani erano stati fin dal settembre del 1943 protagonisti della lotta partigiana. Perdere questa memoria perché abbiamo “nuovi amici” è qualcosa di cui temo ci pentiremo.
A chi si riferisce quando parla di “nuovi amici” di Israele?
A quelli che ammirano il profilo peggiore di Israele: quello della brutalità, l’idea del baluardo contro l’Islam e contro l’immigrazione, l’idea di una società monoetnica nella quale le radici culturali e religiose di una maggioranza si impongono con la forza sugli altri. Sono questi i motivi che hanno portato Israele a diventare un modello dei Jair Bolsonaro, dei Javier Milei, dei Viktor Orban, dei Larussa e Meloni, perfino di Alternative fur Deutschland. Sono amici di cui diffidare molto.
Perché?
Lo stesso vocabolario che nel ‘900 usavano contro gli ebrei, oggi lo usano contro gli immigrati: il profilo culturale è rimasto lo stesso, si sono limitati a dirsi pentiti delle leggi razziali e a dichiararsi oggi i più grandi amici degli ebrei. Il giorno in cui Israele si rivelasse un ostacolo al raggiungimento di equilibri geopolitici che gli convengono, saranno i primi a ritornare al loro vecchio armamentario antisemita. Pensare che Israele possa fidarsi dell’estrema destra come sua protettrice è un’illusione. Sono molto infidi come amici.
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La guerra legittima le ragioni sia di Netanyahu che di Hamas?
La guerra grava sulla società civile israeliana e su quella palestinese che sono molto migliori di chi le dirige. Gli attentati suicidi di Hamas sono quelli che hanno favorito la vittoria elettorale di Netanyahu e Netanyahu a sua volta ha fatto in modo che Hamas mettesse sempre più in ombra una leadership palestinese ragionevole e laica.
Possiamo parlare di due estremismi?
Lo stesso fanatismo nazionalreligioso unisce i gruppi dirigenti israeliani di oggi e quelli di Hamas e Jihad Islamica. Hanno in comune la matrice di dichiarare loro quella terra per diritto divino, si tratta di deformazioni idolatriche e pagane. Ma siccome in quella vivono due popoli è evidente che il loro destino debba essere la convivenza.
Quella dei due Stati resta la soluzione al conflitto secondo lei?
È il legittimo desiderio dei due popoli che non si sentirebbero rassicurati dal vivere all’interno di un unico Stato binazionale. È l’unica soluzione razionale e anche qualcosa che sono certo arriverà, il problema è se prima o dopo una catastrofe ancora più grande di quella che stiamo vivendo.
Cos’è Gaza: qual è il primo pensiero che le viene in mente quando pensa a Gaza?
Gaza è una catastrofe, una tragedia enorme. È ahimè diventata anche un laboratorio: è la prima volta che le vittime possono descrivere in diretta quello che sta accadendo ma queste immagini le si guarda con sdegno e allo stesso tempo con un senso di impotenza che rischia di trasformarsi molto presto in indifferenza. Parlo di laboratorio perché potrebbe diventare il momento in cui ci abituiamo all’idea che un popolo possa essere segregato, sospinto in un territorio sempre più ristretto, come se il mondo si dividesse in chi ha dei diritti per nascita o chi invece non ce li ha. I popoli hanno sempre rimosso le sciagure di chi gli era vicino con l’idea che non ci si possa fare nulla: accade anche agli italiani con i migranti che affogano nel Mediterraneo.
Perché non parla di genocidio a Gaza, come invece hanno riconosciuto per esempio le Nazioni Unite?
Non sono interessato a rispondere a questa domanda. Parlo con tutti, non mi interessa se qualcuno vuole misurare la temperatura della mia indignazione a seconda dell’uso di quella parola. Sono dell’idea che dobbiamo valorizzare i dissidenti dell’una e dell’altra parte e rispettare le loro sensibilità. Continuerò a confrontarmi con tutti, rispetterò tutte le sentenze della Corte Penale Internazionale, non accuso certo di antisemitismo chi sta facendo le istruttorie. Allo stesso tempo stabilire che se non uso la parola genocidio vuol dire che, sotto sotto, essendo ebreo, sto da una parte ben precisa, è il modo più barbaro di vivere una guerra in cui dovremmo avere ben altro senso di responsabilità.
Israele è più sicuro con questa guerra?
Con la nascita di uno Stato palestinese, con un accordo di pace che risolva la questione, si svilupperebbero processi di riconciliazione in tempi molto più rapidi. Ma oggi Israele non è percepito dai suoi cittadini come un posto più sicuro, al contrario.
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