Le motivazioni della sentenza

Caso Open Arms, i giudici hanno smentito Salvini e lui esulta

A differenza di quanto sostenuto dal leader leghista, la nave non era una minaccia e non poteva essere lasciata in mare neanche a fini politici perché prima viene la dignità umana, ricorda il Tribunale. Che ha (discutibilmente) assolto il ministro solo per il Pos

Giustizia - di Salvatore Curreri

21 Giugno 2025 alle 18:30

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Foto Cecilia Fabiano/LaPresse
Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

Andranno lette con la sempre dovuta attenzione le ben 266 pagine della sentenza con cui il Tribunale di Palermo lo scorso 20 dicembre ha assolto l’ex ministro dell’Interno Salvini. Epperò, è fin d’ora possibile fare alcune considerazioni in merito, non foss’altro per ridimensionare i toni trionfalistici con cui ovviamente essa è stata accolta dall’interessato e dalla sua difesa.

Innanzi tutto, i giudici hanno respinto due delle motivazioni addotte da Salvini per giustificare il diniego all’ingresso della Open Arms nelle nostre acque territoriali. In primo luogo, non è vero che tale ingresso sarebbe stato “non inoffensivo” perché, a prescindere dalla pur dubbia conformità di tale atto alle norme di diritto nazionale e internazionale, “non è emerso alcun elemento dotato di minima suggestività di un collegamento tra Open Arms e le organizzazioni dedite al favoreggiamento del flusso migratorio clandestino”. Altro argomento smentito dai giudici è quello per cui il diniego all’ingresso era giustificato dalla ricerca preventiva di accordi con gli altri Stati dell’UE per la redistribuzione dei migranti. Per il Tribunale si tratta di una motivazione “quanto meno opinabile” perché, per dirla con Kant, ogni essere umano, in nome della sua dignità, deve essere sempre trattato come fine e mai come mezzo.

Il vero punto centrale della sentenza di assoluzione sta nel fatto che per i giudici di Palermo siamo dinanzi ad un quadro normativo incerto, caratterizzato da consuetudini e convenzioni internazionali vaghe e contraddittorie, dal quale non si ricava l’esistenza di un vero e proprio obbligo per il nostro Paese di individuare il porto sicuro in cui far sbarcare i migranti (il c.d. Pos, cioè il Place of Safety). Ciò tanto più se si considera che nella vicenda specifica il nostro non fu lo Stato di primo contatto, dato che il comandante della Open Arms, battente bandiera spagnola, avrebbe potuto condurre i migranti in Spagna o a Malta; paesi verso cui si era inizialmente rivolto e in cui essi potevano essere condotti senza correre alcun rischio per la propria vita, come sarebbe stato invece se fossero stati respinti verso la Libia. In definitiva, Salvini è stato assolto perché non era obbligato a far sbarcare i migranti i quali, peraltro, non erano nemmeno in pericolo di vita. Tutto il resto – se la nave potesse già considerarsi un Pos, le condizioni a bordo dei migranti, i ritardati tempi per il loro sbarco – per i giudici passa in secondo piano.
Ma è proprio così? Pur nel doveroso rispetto della sentenza dei giudici di Palermo, ci sia permesso evidenziare come essa si ponga in maniera non perfettamente conforme alla giurisprudenza nazionale e internazionale in materia.

Innanzi tutto, l’obbligo di prestare soccorso e assistenza non si esaurisce nel salvataggio in mare dei naufraghi, essendo la nave un luogo per sua natura in balia degli eventi metereologici e non in grado di garantire il rispetto dei loro diritti fondamentali. Piuttosto, i naufraghi devono essere sbarcati e condotti in luogo sicuro (il c.d. Pos) nel più breve tempo ragionevolmente possibile (§ 3.1.9 Convenzione Sar emendata nel 2006 e § 6.12 del suo allegato 34 contenente le Linee guida).
Ciò posto, circa l’interrogativo su a chi spetta individuare il Pos – allo Stato responsabile della zona di salvataggio? Al comandante della nave privata? Allo Stato costiero più vicino al salvataggio? – anche se il diritto internazionale non detta norme vincolanti, la Cassazione, nel famoso caso Rackete (sentenza n. 6626/2020), ha stabilito che è illegittimo far rimanere per giorni in mare al confine delle acque territoriali le navi di soccorso, in attesa dell’assegnazione del Pos, perché ciò ritarda la conclusione dell’operazione di soccorso coincidente, come detto, con lo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro nel più breve tempo ragionevolmente possibile.

Questa posizione è stata ribadita dalla Cassazione, con l’ordinanza del 7 marzo scorso (5992/2025). Con essa, infatti, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato da un gruppo di migranti cui l’ex ministro dell’Interno Salvini impedì per dieci giorni lo sbarco dalla nave Diciotti della Guardia Costiera, condannando il Governo a risarcire loro i danni non patrimoniali causati dalla privazione della loro libertà personale. In quell’occasione, infatti, la Cassazione affermò che il divieto di sbarco imposto ai profughi non può essere considerato un atto politico sottratto al sindacato dei giudici, tanto più quando potenzialmente lesivo dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione, a partire dalla libertà personale.

Inoltre, “il soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità e come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. Per questo motivo, indipendentemente da chi sia lo Stato competente secondo la ripartizione in zone Sar (nel caso della Open Arms era la Libia, quindi da escludere a priori), spetta allo Stato che si è assunta la responsabilità della gestione delle operazioni di soccorso (in quel caso l’Italia) portare a termine le operazioni di soccorso, organizzando lo sbarco, nel più breve tempo ragionevolmente possibile.

L’unica “discrezionalità tecnica” che residua agli Stati si limita infatti all’individuazione del punto di sbarco più opportuno, tenuto conto del numero dei migranti da assistere, del sesso, delle loro condizioni psicofisiche nonché in considerazione della necessità di garantire una struttura di accoglienza e cure mediche adeguate. Per il resto, dunque, lo Stato deve far sbarcare subito i migranti. Rispetto a tale autorevole indirizzo giurisprudenziale della Cassazione, la sentenza del Tribunale di Palermo non pare essere pienamente conforme, tanto più se, come sembra, essa addirittura non vi faccia espresso riferimento e, dunque, non si misuri con le sue motivazioni. Anche per questo, per chi non cede ai facili entusiasmi e alle strumentalizzazioni politiche di parte, quella dei giudici palermitani dovrebbe essere considerato solo il primo step di una vicenda giurisprudenziale che si preannuncia lunga e complessa e che, probabilmente, porterà la Cassazione ancora una volta a dire una parola definitiva.

21 Giugno 2025

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