Tra silenzi e palloncini bianchi: perché serve un’educazione strutturale contro la violenza di genere
Deve entrare nei programmi scolastici, nella formazione di chi insegna, nei discorsi quotidiani di chi educa
News - di Giulia Milanese

Entro in classe con un libro tra le mani. A volte è un romanzo per adolescenti, altre volte un racconto, un albo illustrato o una poesia. Sempre, però, è un pretesto. Per parlare, per ascoltare, per condividere viaggi in territori inesplorati in luoghi dove spesso consapevolezza e strumenti critici scarseggiano. Lavoro con le scuole, il mio punto di partenza è la lettura ad alta voce, e spesso mi occupo di stereotipi di genere. Lo faccio soprattutto nelle zone più fragili dell’area napoletana, dove la povertà economica si somma a quella educativa, con risultati talvolta devastanti.
Ma la verità è che, quando si parla di questi temi, il problema non sono le ragazze e i ragazzi. Il problema è la società adulta. Lo penso ogni giorno mentre lavoro con chi cresce, ma non è un’impressione personale: la sociologia e la pedagogia lo dicono da anni.
È la società adulta che produce l’ambiente in cui le identità si formano. È la società adulta che chiede a chi cresce di fare chiarezza in mezzo alla confusione generata da chi avrebbe il compito di guidare.
Viviamo in una cultura ancora strutturalmente patriarcale, che una parte fatica a riconoscere e integrare le nuove conquiste dell’emancipazione femminile e dall’altra, continua a riprodurre modelli maschilisti in modo normalizzato, quotidiano, sottotraccia. Nelle narrazioni, nei discorsi pubblici, negli immaginari familiari e affettivi.
Lo Stato è assente: non esiste una strategia educativa ampia, diffusa, stabile. E la scuola è lasciata sola, con pochi strumenti, a reggere il peso dell’urgenza.
Così, mentre la politica evita le parole “genere” e “affettività”, a chi cresce viene affidata la responsabilità di interpretare in solitudine ciò che sente e ciò che vede.
Gli effetti collaterali di tutto questo parlano chiaro: identità fragili, relazioni confuse, scelte pericolose. In questo vuoto prende forma una figura oggi centrale nel racconto adolescenziale, il “malessere”. Non è solo uno stato d’animo, è un personaggio. Un codice emotivo e relazionale tossico: il ragazzo che ti fa stare male, ma è esso stesso il male.
Un archetipo che si muove tra canzoni, storie social e messaggi vocali, che alterna freddezza e dipendenza, silenzi e gesti intensi. Instabilità, violenza e bisogno idealizzati. Se ne parla con leggerezza, a volte con ironia, persino con orgoglio. Ma sotto il disagio è reale, profondo e del tutto sottovalutato.
E mentre questi miti tossici si consolidano, fuori si svolge l’ennesimo rito collettivo. Alla fiaccolata per l’ultima vittima c’erano palloncini bianchi, candele, fiori avvolti in rosso, colore simbolo della lotta contro la violenza di genere. È successo ancora. E succederà ancora. Un copione tragico e ormai talmente frequente da aver definito il perimetro di un rito sempre uguale a se stesso. Poi, il silenzio.
Ma proprio da quel silenzio bisogna ripartire. Se parlare di genere e affettività sembra così minaccioso per chi governa, allora partiamo dalla scienza. Insegniamo le neuroscienze ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze. Spieghiamo come funziona un’emozione, come nascono l’attaccamento, la paura dell’abbandono, la dipendenza affettiva. Come il cervello prende decisioni quando è in allerta, come si confondono desiderio e bisogno. Diciamo, chiaro, che non è il destino a compiersi, che c’è sempre una possibilità di scelta. Che essere uccise da chi si ama non è una possibilità. Che cedere alla rabbia e accanirsi contro chi ci sta accanto non è una possibilità.
Chi cresce affronta un mondo enorme, iperstimolato, con confini dilatati oltre misura, eppure lo fa senza conoscere nemmeno i meccanismi fondamentali del proprio corpo, del proprio sentire. Non sa – perché nessuno lo ha spiegato – come si riconosce una manipolazione, come si distingue la libertà dalla dipendenza, il rispetto dalla pretesa.
E mentre le nuove generazioni imparano, per chi è già adulto – genitore, docente, educatore o semplice testimone – esiste una sola strada possibile: mostrarsi competenti, radicali, gentili. La competenza, per non deludere. La radicalità, per dire le cose come sono, senza compromessi. La gentilezza, per essere davvero credibili. Nei miei progetti, le misurazioni ex ante ed ex post lo dimostrano: il cambiamento è possibile. I pensieri si spostano, le parole cambiano, la percezione di sé e dell’altro si trasforma. Ma non bastano percorsi saltuari, il cambiamento vero deve essere strutturale e incessante. Deve entrare nei programmi scolastici, nella formazione di chi insegna, nei discorsi quotidiani di chi educa. Deve diventare cultura adulta.
Leggere ad alta voce, allora, è solo l’inizio. È il modo che ho per bussare. Poi tocca a tutte e tutti noi aprire la porta.