No ad un altro decreto Caivano

Strage di Monreale, la risposta non è il pugno duro

Cronaca - di Vincenzo Scalia

30 Aprile 2025 alle 16:30

Condividi l'articolo

Le vittime della strage di Monreale. Da sinistra: Andrea Miceli, Salvatore Turdo, Massimo Pirozzo
Le vittime della strage di Monreale. Da sinistra: Andrea Miceli, Salvatore Turdo, Massimo Pirozzo

La rissa di sabato 26 aprile a Monreale, con la tragica morte di tre giovani, suscita preoccupazione sotto diversi punti di vista. Sia per il modo, sia per il contesto all’interno del quale si è verificata. È assurdo che il sabato sera, giorno deputato al divertimento per antonomasia, debbano avvenire tragedie di questa portata. È ancora più assurdo pensare che il casus belli sia stato un rimbrotto da parte delle vittime rispetto al modo aggressivo in cui gli aggressori guidavano. Risulta ancora più assurdo pensare alla diffusione delle armi da fuoco tra i giovani. Sicuramente prenderanno piede, ad interpretazione dei fatti, due delle letture più diffuse a livello mediatico. La prima riguarda la gioventù violenta, che nell’ultimo lustro ha occupato la ribalta delle cronache nazionali, culminando col decreto Caivano. Malgrado i protagonisti della tragedia fossero tutti maggiorenni, sono comunque giovani, ovvero la classe pericolosa per eccellenza dell’Italia contemporanea. L’altra lettura è quella del sud come luogo afflitto da un cronico deficit di legalità, come dimostra la diffusione della criminalità organizzata. Una domanda di provvedimenti ancora più repressivi, all’insegna di legge e ordine, rischia di essere il passo successivo. Magari con la compagine governativa che rivendica il suo approccio muscolare e a giustificare il DDL 1660.

In realtà, per leggere la tragedia di Monreale, è necessario svolgere un’analisi articolata su tre piani. Il primo riguarda la questione delle armi e della violenza. Che non è soltanto una peculiarità del Sud e della Sicilia, come le cronache più recenti dimostrano. Che è figlia, soprattutto, del securitarismo montante, con ex assessori che sparano a freddo sui migranti nella pubblica piazza. E imprenditrici che investono i borseggiatori e poi passano col SUV sopra i cadaveri. La violenza, ahinoi, lungi dall’essere un’anomalia circoscrivibile all’universo giovanile, è diventata una caratteristica endemica dell’Italia di oggi. E la macchina politico-mediatica di produzione del consenso e dell’audience a mezzo della paura svolge un ruolo non secondario in questa crescita.

In secondo luogo, le trasformazioni del territorio palermitano avvenute negli ultimi anni vanno analizzate in profondità per comprendere la tragedia di sabato scorso. Da almeno un quinquennio, le cronache locali, riportano di scontri violenti, di accoltellamenti, di morti, nel capoluogo siciliano, in particolare nei giorni e nei luoghi della movida. Cosa è successo? Una delle spiegazioni va ricercata nella conversione dello spazio urbano palermitano in funzione del turismo di massa. La ricostruzione del centro storico, lungi dal rigenerare tessuto sociale in senso residenziale, aggregativo e produttivo, ha finito per distruggere mercati storici, come la Vucciria, a vantaggio di una pletora di negozi di souvenir e luoghi deputati allo spritz e al cibo di strada. Parallelamente, le case sono state destinate in misura crescente alla funzione di strutture ricettive temporanee, o ad abitazioni esclusive. Inoltre, Palermo è diventata la meta di professionisti internazionali che vi si trasferiscono per i vantaggi che il clima, i prezzi bassi, il cibo, offrono. Una trasformazione tumultuosa, non governata, che non ha posto nessuna attenzione ai bisogni dei vecchi residenti, espellendoli in periferia o marginalizzandoli. I conflitti della movida vanno letti anche come conflitti tra vecchi e nuovi residenti. O come frustrazione di fasce marginali, relegati in quartieri ghetto, privi di strutture aggregative. Che sfogano la loro frustrazione attraverso una violenza espressiva, spesso esercitata ai danni dei residenti di altre periferie. Non a caso gli aggressori venivano dallo Zen, ghetto palermitano per antonomasia. E le vittime sono di Monreale, cittadina turistica cresciuta a dismisura come ulteriore periferia dei palermitani che non possono più permettersi di abitare in città. In assenza di una politica pubblica che sia in grado di articolare la funzione turistica con quella residenziale. Insomma, la periferia contro la periferia.

In terzo luogo, la questione mafiosa. Paradossalmente, il declino del controllo del territorio da parte di Cosa Nostra, ha finito per produrre una sinistra democratizzazione della violenza. Una volta regolata e limitata dalla signoria dei boss, che decidevano chi, come e a chi si dovesse sparare, rubare o rapinare. Oggi, un’organizzazione in declino, che, come mostrano le ultime inchieste, si arrabatta vendendo qualche panetto di hashish, si traduce in una maggiore circolazione della violenza, che, evidentemente, si salda alle frustrazioni da marginalità. Non escluderei nemmeno che una mafia in crisi cerchi di rientrare dei vuoti economici piazzando sul mercato illegale le armi in eccesso. Insomma, il quadro che abbiamo dipinto fin qua, risulta problematico, complesso, ma non risolvibile attraverso il solito ricorso a misure di legge e ordine. Ci vogliono piuttosto politiche ispirate da logiche inclusive, fondate sul governo del territorio e sul rilancio di un’economia che non sia ostaggio della monocoltura turistica. E che sostituisca i ghetti con spazi urbani autentici. Bisogna non dimenticare Palermo, e Monreale, andare oltre le autonomie differenziate. Per i tre ragazzi morti in modo assurdo, a quelli morti prima di loro, è il minimo che possiamo fare.

30 Aprile 2025

Condividi l'articolo