Il ricordo dell'ex primula rossa
Chi era Graziano Mesina: l’ultimo ribelle tra armi, amori ed evasioni
Nonostante fosse terminale, l’hanno tenuto seppellito in cella fino al penultimo dei suoi giorni: non per i suoi delitti, per i quali aveva pagato, ma perché lo Stato non riuscì mai a domarlo
Cronaca - di David Romoli

I molti articoli che hanno ricordato Graziano Mesina, lasciato morire in carcere da una giustizia solo vendicativa, rendono conto solo in parte della storia di uno degli ultimi “bravi ragazzi”, i banditi della vecchia scuola oggi quasi archeologia. Si sono concentrati sull’incredibile rosario di evasioni tentate, 22 nel corso dei decenni tra le quali 10 riuscite ma non è per quella carriera da primula rossa che Grazianeddu Mesina era diventato, alla fine degli anni 60, un personaggio notissimo e da molti anche amato. Le fughe rocambolesche non spiegano perché Giangiacomo Feltrinelli, miliardario e guerrigliero, aveva coltivato il sogno di renderlo il Che Guevara della Sardegna (e glielo aveva anche proposto), né i libri e il film che dopo il ‘68 raccontarono la sua vicenda.
Graziano Mesina era diventato un nome noto anche a chi del banditismo sardo sapeva poco e niente il 17 giugno 1967. Quel giorno lui e la sua banda dedita ai sequestri di persona sui monti della Barbagia si imbatterono in una pattuglia di baschi blu vicino alla località di Osposidda. Il conflitto a fuoco proseguì per ore. Alla fine rimasero sul terreno, uccisi, due agenti, Pietro Ciavola e Antonio Grassia. Era stato ferito a morte anche il braccio destro di Mesina, uno spagnolo di 26 anni che si faceva chiamare Miguel Atienza anche se il vero nome era Miguel Alberto Asencios Prado Ponte. Morì in una grotta del Supramonte di Orgosolo. Il corpo fu fatto ritrovare in un sacco di juta e sepolto senza bara e senza lapide in un cimitero, connotato solo dal numero 196. Le autorità temevano che intorno a quella tomba potesse sorgere una sorta di culto popolare. Nel 2020 anche quel cippo, sul quale ogni anno una mano sconosciuta depositava un mazzo di rose bianche, è scomparso.
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Dopo quella sparatoria la storia di Grazianeddu diventò notissima ovunque, quasi una leggenda. Mesina aveva 25 anni, era il penultimo tra gli 11 figli di un pastore di Orgosolo ed era un ribelle nato. Dalle scuole elementari era stato cacciato per aver preso a pietrate il maestro. Era stato arrestato per la prima volta a 15 anni, nel 1956, per possesso d’armi illegale e poi di nuovo nel 1960 per aver sparato in luogo pubblico. Prendeva di mira le lampadine. Primo vero arresto, prima evasione: smontò la branda della cella di sicurezza, se andò indisturbato ma si costituiti su spinta della madre. I sequestri di persona in Sardegna erano allora all’ordine del giorno: dal 1960 al 1997 se ne sono contati 180 e a sconfiggere la cosiddetta Anonima Sequestri non è stato tanto l’esercito spedito a occupare militarmente l’isola ma il molto più redditizio traffico di droga al quale si sono convertiti gli ex sequestratori e i discendenti. Mentre Grazianeddu era in carcere fu ucciso un commerciante, Pietrino Costa. Una lettera anonima denunciò i fratelli di Mesina e indicò un terreno dove pascolavano le greggi come sepoltura del sequestrato. Erano innocenti ma finirono in galera lo stesso, prima di essere scagionati dopo due anni. Nel 1961 Graziano uscì di galera: pochi mesi dopo il presunto accusatore dei suoi fratelli fu ferito gravemente in un bar. Mesina ha sempre negato di aver sparato ma non è che gli abbiano creduto in molti.
Arrestato tentò di evadere buttandosi da un treno in corsa mentre lo trasferivano a Sassari, accusato del precedente tentativo di omicidio di un pastore che gli aveva ammazzato il cane. Fu ripreso quasi subito ma era ferito e dovettero trasferirlo in ospedale: dal quale evase calandosi dalla grondaia e poi restando tre giorni nascosto dentro un tubo dell’acqua. Prima di essere arrestato di nuovo uccise l’uomo che riteneva colpevole dell’assassinio di suo fratello. Catturato di nuovo tentò più volte la fuga: di nuovo provando a saltare dalla toilette di un treno in corsa, o cercando di aprire un buco sul pavimento di un altro treno, fingendosi pazzo per provare invano a saltare dal davanzale del manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. La fuga gli riuscì nel 1966. Scappò dal carcere di Sassari, stavolta saltando da un muro alto 7 metri. Con lui c’era lo spagnolo Atienza, un ragazzo assetato di avventure che si era arruolato nella Legione straniera ed era poi fuggito in canotto non sopportandone la ferrea disciplina, che era in carcere per furto d’auto.
Nei mesi seguenti i due, a capo di una banda di sequestratori, misero a segno una serie di rapimenti. Ma il banditismo sardo non era considerato solo criminalità. Nel 1961 il regista Vittorio De Seta aveva spopolato al Festival di Venezia con un film interpretato da veri pastori sardi, Banditi a Orgosolo. Il confine tra banditismo e ribellione era labile. Mesina era una sorta di eroe ribelle: il libro che sulla storia avrebbe scritto il giornalista Giuseppe Fiori, una delle penne brillanti dell’epoca, e dal quale fu poi tratto un film omonimo da Carlo Lizzani, con Terence Hill protagonista, si chiamava significativamente La società del malessere. La fantasia di Feltrinelli, che sperava di trasformare Grazianeddu in un capo rivoluzionario, non era del tutto infondata.
Ma Mesina era un ribelle indomabile, non un rivoluzionario. Arrestato nel 1968 evase di nuovo nel 1976, stavolta minacciando un agente della penitenziaria pistola alla mano e facendosi consegnare anche un milione. Si rifugiò dal boss milanese Francis Turatello, di cui era diventato amico in carcere, e prese parte alla spedizione del re delle bische contro l’unico centro del gioco d’azzardo milanese che sfuggiva al suo controllo, il Brera Bridge. Turatello chiamò “banco” mettendo una bomba a mano sul tavolo, poi, dopo essersi fatto consegnare tutti i soldi e gli oggetti di valore dai presenti distribuì biglietti da visita con gli indirizzi dei suoi locali: “Da noi queste cose non succedono”. Mesina aveva raccolto tante pellicce da non riuscire quasi più a muoversi e Turatello gliele fece lasciare. Uscì comunque imbottito di banconote che regalò in parte ai parcheggiatori di fronte alla bisca: “Siete lavoratori pure voi”.
Tornato in carcere nel 1977, Mesina ha occupato di nuovo le prime pagine dei giornali più volte: nel 1985, quando non rientrò da un permesso di tre giorni ma era solo una fuga d’amore e lo ritrovarono a casa dell’amante, nel 1992, quando ormai in libertà condizionale mediò con i rapitori per il sequestro del bambino Farouk Kassam, l’anno seguente, quando gli fu revocata la libertà condizionale perché gli trovarono un mitra in casa e nel 2004, quando l’allora presidente Ciampi gli concesse la grazia. Quella grazia fu revocata dopo 9 anni: Mesina era accusato di traffico di droga e di star preparando nuovi sequestri. Uscì per decorrenza termini dopo 6 anni e si rese per l’ennesima e ultima volta latitante. Lo hanno ripreso nel 2021 e stavolta lo hanno tenuto in galera senza cure sino all’ultimo momento. Una vendetta non contro i suoi delitti, per i quali avendo passato 45 anni in carcere aveva comunque pagato in abbondanza, ma per la sua indomabilità.