80 anni fa la nascita

Quanto ci manca Bob Marley: l’eroe dei ghetti di tutto il mondo di cui avremmo bisogno anche oggi

La sua fu una rivoluzione gioiosa, che fece fibrillare il mondo al ritmo del reaggae. Le sue battaglie contro povertà ed emarginazione segnarono un’epoca. Ma oggi ne avremmo ancora bisogno...

Spettacoli - di David Romoli

9 Febbraio 2025 alle 09:46

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AP Photo/Jacques Langevin, File
AP Photo/Jacques Langevin, File

Forse se si fosse curato per tempo quel cancro al piede di cui si era accorto giocando a pallone, la sua grande passione dopo la musica, oggi assisterebbe di persona ai concerti e alle celebrazioni per i suoi 80 anni, compiuti due giorni fa, il 6 febbraio. Sarebbe attorniato da una foltissima tribù di figli e nipoti.

Quando morì a 36 anni, nel 1981, aveva 10 figli, tre con la moglie Rita, gli altri ciascuno con una donna diversa, e aveva adottato la figlia di Rita.  Oggi molti di loro sono musicisti affermati e sul palco salgono già da un po’ i nipoti. L’ultimo, YG Marley, è figlio di Rohan, campione di football invece che musicista, e di una leggenda del rap, Lauryn Hill: dicono che come voce sia il più simile al nonno. Invece Marley scelse di non curarsi per non contravvenire alle regole bibliche della sua religione, il rastafarianesimo. Quando cambiò idea era troppo tardi.

Pochi artisti hanno incarnato la lotta per la liberazione dei neri e dei poveri in tutto il mondo come Robert Nesta Marley, figlio di un attempato giamaicano bianco di buona famiglia, Norval Marley, e di una giovanissima nera, Cedella Malcolm. La pelle chiara non era già più un vantaggio nella Giamaica degli anni 60: piuttosto uno stigma di cui Marley soffrì sempre. Norval sposò la madre di Bob e riconobbe il figlio ma non ebbe poi il coraggio di resistere alle pressioni della famiglia. Scomparve o quasi passando solo una piccola cifra a Cedella. Fu il nonno a crescere Bob in campagna prima he la futura star, a 12 anni, si trasferisse nella capitale Kingston. A Trench Town, uno dei quartieri più poveri, violenti ma anche musicalmente più lussureggianti del mondo.

La Giamaica era appena diventata Stato indipendente, il 6 agosto 1962, e i giamaicani avevano festeggiato la libertà inventando un nuovo tipo di musica, molto ritmato, di marcata derivazione africana, lo ska. Chiunque fosse in grado di suonare o cantare provava a sfondare nella musica, anche perché altre strade per evadere dal ghetto non c’erano. I soldi per comprare dischi però erano una chimera: la musica si suonava per strada, proveniva dai sound system, mastodontici impianti a più casse mobili. I gestori di sound system si contendevano le ultime uscite dagli Usa e capitava che la concorrenza finisse a rivoltellate. I teppisti e giovani gangster, i Rude Boys, a metà dei 60 erano una presenza ossessiva nella musica giamaicana. Il trio di cui Bob era voce principale, gli Wailers, diventò la principale band dei Rudies. Per la strada Bob era Tuff Gong, come poi avrebbe chiamato la sua etichetta musicale: ancora oggi chi ne parla avendolo conosciuto da vicino lo chiama “The Gong”.

Molto prima di sfondare ovunque, come non era mai capitato a nessuna star proveniente da quello che allora si chiamava “il Terzo Mondo”, gli Wailers erano stelle da primo posto in classifica nella loro isola. Tre ragazzi di Kingston, Bob, Bunny Livingstone, figlio del nuovo compagno di sua madre e Peter Tosh, che armonizzavano sul modello americano degli Impressions e si facevano accompagnare da musicisti degni di figurare tra le migliori sezioni rtmiche del mondo. Lo ska rallentò il ritmo e diventò rocksteady, poi lo frenò ancora per trasformarsi in reggae: una musica per basso e batteria, modellata sui tamburi africani. Bass Culture, la definì il poeta giamaicano Linton Kwesi Johnson. Il successo non bastava a riempire le tasche. Nel ‘66 Bob tentò la carta dell’emigrazione negli Usa: cameriere, poi operaio alla Chrysler. Resse poco prima di tornare a casa e alla musica per incidere, soprattutto con il grande produttore Lee Perry scomparso nel 2021, le cose migliori della sua intera carriera.

Nel frattempo aveva abbracciato un culto che, nato negli anni 20, in Giamaica conquistava sempre più seguaci, il rastafarianesimo. Basato sul libro sacro molto popolare nell’Africa cristiana Kebra Nagast, “La gloria dei re”, sull’amore tra il re Salomone e la regina di Saba, il culto rastafariano era una lettura integralista del dettato biblico in versione panafricana. Considerava il Negus dell’Etiopia Hailè Selassiè, Ras Tafari, discendente diretto di Salomone e nuovo messia. Il risultato è quell’intreccio di misticismo e impegno rivoluzionario, musica, religione e politica che è la cifra artistica di Bob Marley e poi dell’invasione del reggae che negli anni 70 e 80 del XX secolo fu travolgente, influenzò e modificò alla radice il corso di tutta la musica pop, ovunque.

Quel successo mondiale Marley lo raggiunse nei primi anni 70. Era passato alla Island del giamaicano bianco Chris Blackwell, etichetta che si era già fatta un nome producendo i primi dischi reggae arrivati in Uk e poi soprattutto band inglesi sperimentali ma di gran successo. L’idea originaria di Blackwell però era rimasta quella di lanciare nel mondo la musica giamaicana. Con Bob Marley ci riuscì. La vita del principale musicista proveniente da un’isola singolarmente ricca di talenti musicali si è intrecciata più volte, nei suoi otto anni sulla cresta dell’onda, con le tragedie politiche della Giamaica. Gli anni 70 furono segnati da una guerra tra i due partiti che si fronteggiavano, il socialista People’s National Party di Michael Manley e il conservatore Jamaican Labour Party di Edward Seaga. Si combattevano con gli eserciti privati, non con i comizi.

La sera del 3 dicembre 1976 un commando attaccò a Kingston la villa di Marley, che il giorno dopo avrebbe dovuto cantare a un concerto considerato in appoggio a Manley. Per puro caso tutti i presenti nella villa furono feriti ma nessuno ucciso. I colpevoli furono uccisi pochi giorni dopo. I sospetti non potevano che appuntarsi sul partito di Seaga ma la realtà è più complessa. Il Gong era cresciuto con i capi dei gangster di entrambe le fazioni. Era intimo del capo dell’esercito di Seaga, Claude Massop, che non avrebbe mai permesso un attentato contro il cantante.  I biografi e sulla loro onda Marlon Jones, autore del bellissimo romanzo sulla vicenda Breve storia di sette omicidi, ritengono che organizzatore dell’agguato fosse il numero due di Massop, Jim Brown, futuro fondatore a New York di una delle organizzazioni criminali più temute d’America, per conto non di Seaga ma della Cia.

Due anni dopo, proprio in virtù dei suoi rapporti con i capi delle bande armate, Marley presiedette a un grande concerto di riconciliazione nazionale, nel corso del quale Seaga e Manley salirono sul palco con lui e si strinsero la mano siglando una pace che peraltro durò pochissimo. Oggi, nel ricordo, Bob Marley è più vicino a Malcolm X che non a Robert Johnson o Ray Charles. L’immagine del rivoluzionario fiammeggiante ha fatto premio su quella del musicista e in fondo è anche giusto, perché Marley è stato prima di tutto un cantante e un grande compositore ma nella sua musica la capacità di interpretare la sofferenza ma anche l’ansia e la possibilità di resurrezione dei ghetti di tutto il mondo è sempre, anche quando parla d’amore, il muro maestro.

9 Febbraio 2025

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