Il Meridiano Mondadori

Agata Christie: la regina del giallo è grande letteratura, altro che pop superficiale

È l’autrice di intrattenimento più letta al mondo, ma la grande simpatia popolare non ne sminuisce di un millimetro la capacità narrativa senza pari, sorretta anche da una visione del mondo problematica e disincantata

Cultura - di Filippo La Porta

8 Dicembre 2024 alle 20:48

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Agata Christie: la regina del giallo è grande letteratura, altro che pop superficiale

Nel Meridiano Mondadori ora dedicato ad Agatha Christie (1870-1976) – Fiabe gialle, bibliografia e notizie sui testi di M.Amici e D.Astegiano – il saggio introduttivo è scritto, sorprendentemente, da Antonio Moresco. Dunque, uno scrittore terminale, cosmico, intrattabile riconosce la grandezza e singolarità della regina del giallo, l’autrice di intrattenimento più letta al mondo (oltre due miliardi di copie vendute), qui proposta come “scrittrice convenzionale ed estrema, realistica e mitico-fiabesca, esistenzialista e metafisica”, con uno “scavo esistenziale” associato a Kafka per quanto riguarda almeno la straordinaria e (genialmente) elementare invenzione narrativa dei Dieci piccoli indiani. Certo, in lei nessun oltranzismo espressivo, né aspirazione a decostruire lessico e sintassi, ma la sua “fusione esplosiva di forma e contenuto” reinventa la lingua. È l’irruzione barbarica (non è mai andata a scuola!) del popolare nella letteratura colta: viene letteralmente “da un’altra parte” e in tal senso resta anche stilisticamente una scombinata, adorabile, “straniera”, proprio come il suo buffo, mozartiano e tragico detective belga Poirot.

In nessun senso andrebbe considerata inferiore, poniamo, a Joyce, che invece, in ogni riga dell’Ulisse, ci intimidisce ricordandoci sempre che ci troviamo nell’“alta letteratura”, entro un’opera-mondo inesorabilmente monumentale (lui a scuola invece ci è andato tanto). Viene poi qui citato, en passant, il giudizio sprezzante e frettoloso su di lei da parte di Beckett,grande e catafratto scrittore irlandese”, e proprio a proposito di un romanzo strepitoso di Christie, La casa sbilenca, che andrebbe accostato alla tragedia greca. Moresco è anzitutto attratto dalla apparente umiltà di Christie, tipica “mossa del genio femminile”: farsi piccole, nascondersi dietro la maschera del dilettantismo: Caterina da Siena, Teresa di Lisieux…(ma potremmo aggiungere: Simone Weil, Hannah Arendt, Maria Zambrano). Poi passa in rassegna vari scrittori gialli, tutti abilissimi artigiani, dei quali però nessuno possiede “l’inconfondibile tocco, lo scarto inventivo e l’ardimento della Christie”. Poi la confronta con un altro campione assoluto del genere, Simenon, anche lui prolifico. Ma per concludere che se Simenon è moralista e compassionevole lei “è più spietata”, tanto la sua intera produzione nasce da “un nucleo di dolore e di male”, benché dissimulato sotto la maschera di una commedia dell’arte con maschere fisse.

Moresco cita opportunamente Brecht sulla analogia tra struttura logica del giallo e cruciverba, e poi un altro illustre estimatore del genere, Wittgenstein (ma anche Edmund Wilson e Sciascia). E prova a replicare all’obiezione della figlia, tratta da Sestov, che il giallo fallisce il suo scopo poiché non è in grado di farci provare pietà per la vittima. Ora, è vero che il “gioco enigmistico” di Christie, che pure prova empatia per le vittime, va oltre tutto questo. Peccato però che Moresco non prenda in esame quella che per me è la principale obiezione al giallo. E cioè: non è interessante tanto il male dispiegato, l’omicidio commesso, il serial killer (che diventa perfino ovvio), quanto il male sospeso e potenziale, il delitto nascosto in un banale litigio in famiglia, la violenza latente nella vita sociale di ogni giorno, il serial killer nascosto nel burocrate. Ma ci sarà tempo e luogo per approfondire questo tema.

Torniamo a Christie, alla sua “forte struttura di pensiero e giudizio”, alla sua lucidità da moralista settecentesca, influenzata da Dickens, Conan Doyle e Shakespeare, oltre che dalla Bibbia. Dal florilegio dei suoi pensieri solo alcuni prelievi, che attestano un’idea grave e precisa degli umani, una visione disincantata che non esclude però gli abbagliamenti dell’amore e il miracolo della bellezza (come peraltro affiora dall’immagine riprodotta in copertina di lei bambina biondissima e preraffaellita, con un sguardo velato di malinconia). “‘Si sbaglia’ disse Poirot ‘La vera tragedia della vita è che la gente non cambia mai ‘ “; “Gelosia? No, no, no! Si tratta del movente solito, solitissimo, inevitabile: il denaro, caro, il denaro”; “La natura umana si ripete più di quanto ci immaginiamo. Il mare è infinitamente più vario”; “Certe volte secondo me arrivava a odiarla. Anche se forse questa è una cosa più comune di quel che pensiamo”; “Il male non rimane mai di fatto impunito, signore. Ma talvolta rimane segreto il castigo”. “Quando dico la verità non mi crede nessuno. Per dire una bugia devi impegnarti e alla fine risulta più convincente”.

La scelta dei romanzi, e anzi delle “fiabe archetipiche”(come qui sono felicemente definiti), è volutamente selettiva. Sarebbe stata impossibile un’antologia dei suoi capolavori, che peraltro tutti possiamo acquistare ovunque per una modica cifra. Moresco si è imitato a dieci romanzi, tutti “sorprendenti e rivelatori”, con alcune dolorose esclusioni, come L’assassinio sull’Orient-Express e Il pericolo senza nome. Dei romanzi qui presenti non diremo nulla perché anche il più minuscolo dettaglio sarebbe uno spoiler. Mi limito a segnalare l’ultima testamentaria opera pubblicata, nel 1975 (pare per cederne i diritti alla figlia e così assicurarle un solido vitalizio), benché scritta nel 1940, Il sipario, dove entra in scena un anziano Poirot sulla sedia a rotelle che torna nel paesello del suo primo caso, con il fido Hastings (io narrante).

Nel romanzo, dove appare un villain memorabile, Norton – amorale, sadico e soprattutto infantile (tratto comune dei killer) – proprio Hastings medita di compiere un delitto – ai danni di un ripugnante corteggiatore della figlia -, poi va a confessarsi da Poirot: “Se c’è una cosa che non fa bene all’autostima è raccontare un fallimento”. Potremmo concludere che la audacia affabulatoria di Christie si distende tutta nello spazio narrativo che separa i due opposti (ma qui non diciamo i romanzi in cui si trovano): da una parte una storia in cui gli assassini sono tutti i personaggi in gioco, dall’altra una storia in cui non è nessuno di essi! Beckett avrebbe dovuto pensarci.

Considerazione finale. Il romanzo nasce come genere popolare (“romanzo d’avanguardia” è un ossimoro) Agisce su ciò che hanno in comune i membri di una società, mitologie e archetipi collettivi. Si pone sullo stesso piano dei suoi lettori – delle loro idee ed emozioni quotidiane – quasi rasoterra: non aspira pedagogicamente a risvegliarli (come molti scrittori pretendono di fare, in realtà incapaci anche solo di raccontare una storia). Ogni romanzo è un gesto di fratellanza. Agatha Christie, senza rinunciare a dire la sua verità tragica sulla vita – teatrino di orrori – si rivolge a ogni lettore e lo cattura attraverso un magico sortilegio. Ci fa abitare per un po’ in altri universi, perfettamente coerenti e compatti, retti da leggi ferree, anche solo per vedere l’effetto che fa. Ci mostra il volto in ombra del mondo, ma non ci scaraventa dentro di esso, e anzi lo trasforma in recita e leggerezza. Come non essergliene infinitamente grati?

8 Dicembre 2024

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