Il caso e la difesa d'ufficio del ministro
Processo Open Arms, quello che Nordio non sa (o finge di non sapere) sul collega Salvini
Il ministro critica il processo Open Arms. “Il Parlamento ha dato per tre casi identici tre pareri diversi”, dice. Nulla di strano: la valutazione è appunto politica. “Non c’era interesse personale” nel tenere sequestrati i migranti, assicura il Guardasigilli. Benissimo, ma questo non implica automaticamente che fosse invece interesse dello Stato
Editoriali - di Salvatore Curreri
In alcune dichiarazioni apparse sulla stampa il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha criticato il processo Open Arms a carico di Matteo Salvini per i seguenti due motivi:
1) “C’è un’anomalia. A fronte di tre casi identici, in uno non c’è stata autorizzazione a procedere, in un altro c’è stata, nel terzo è stato assolto”; 2) “C’è una legge costituzionale che dice che se un reato, ammesso che si tratti di reato, fosse commesso nell’interesse dello Stato l’autorizzazione a procedere non può essere concessa”. Da qui la conclusione: difficile pensare che, ammesso che vi sia stato reato, esso “sia stato commesso nell’interesse di Salvini e non di quello che in quel momento si pensava fosse l’interesse dello Stato”. A prima vista si tratta di osservazioni che ubbidiscono ad una logica stringente e quindi inconfutabili. In realtà si tratta di affermazioni che meritano quantomeno una puntualizzazione sotto il profilo giuridico-costituzionale per evitare che inducano a conclusioni errate quanto – e sono i più – non conoscono le regole che disciplinano la materia.
Innanzitutto, è certamente vero che il Senato, chiamato a pronunciarsi tre volte sul ministro dell’Interno Salvini, proprio membro, ha preso decisioni diverse. Nel primo caso (20 marzo 2019) ha negato l’autorizzazione a procedere per l’ipotizzato reato di sequestro dei migranti sulla nave Diciotti; nel secondo caso (12 febbraio 2020), respingendo un ordine del giorno contrario, ha invece concesso l’autorizzazione a procedere sempre nei confronti dello stesso ministro per l’ipotizzato reato di sequestro dei migranti sulla nave Gregoretti; allora però il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Catania emise sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto.
Infine, nel terzo, il Senato (30 luglio 2020), respingendo le conclusioni della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, ha concesso l’autorizzazione a procedere sempre nei confronti del medesimo ministro a seguito della quale egli si trova, com’è noto, sotto processo dinanzi al Tribunale di Palermo per il reato di sequestro di persona per i migranti sulla nave Open Arms. Potrebbe in effetti sembrare un procedere errabondo per cui talora si autorizza, talaltra no. Ma quel che potrebbe sembrare contraddittorio in realtà corrisponde perfettamente alla ratio delle disposizioni costituzionali in materia di responsabilità penale dei membri del Governo per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Nel 1989, a seguito dello scandalo Lockheed e del referendum del 1987 sulle norme sui procedimenti d’accusa, si decise che in tali casi i ministri fossero giudicati non più dalla Corte costituzionale ma dai giudici ordinari, previa però autorizzazione della camera d’appartenenza (o, se non parlamentare, il Senato).
Tale autorizzazione s’intende concessa (silenzio-assenso) a meno che la camera, a maggioranza assoluta dei componenti, “reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Le Camere quindi sono chiamate a fare una valutazione di tipo politico perché devono stabilire se il ministro, nel commettere il reato di cui è accusato, abbia agito per un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per un preminente interesse pubblico. Trattandosi di una valutazione politica, non c’è dunque da scandalizzarsi se quel che è ritenuto corrispondente a tali finalità non lo sia più successivamente.
Non è un caso, infatti, che delle tre autorizzazioni richieste, l’unica è stata negata ai tempi del Conte I, quando la maggioranza di governo di allora condivideva la politica migratoria dell’allora ministro dell’Interno. Quel che deve scandalizzare non è la diversità di giudizio da parte di maggioranze diverse quanto piuttosto se, in forza della “valutazione insindacabile” della camera cui fa riferimento l’art. 96 Cost., un membro del governo in nome della “ragion di Stato” possa (far) compiere reati addirittura lesivi dei diritti inviolabili della persona umana, come ad esempio un sequestro di persona, la tortura o, addirittura, un omicidio.
E qui veniamo alla seconda obiezione di Nordio secondo cui, escluso l’interesse personale di Salvini, bisognerebbe concludere che egli abbia agito in nome di quel che allora si riteneva fosse l’interesse dello Stato. Si tratta di una obiezione che capovolge strumentalmente i termini del problema: l’interesse dello Stato non deriva di per sé dall’esclusione dell’interesse personale; al contrario, è la sua sussistenza deve essere specificamente dimostrata e valutata. Né può dirsi che tale interesse sia di per sé insito nell’attività politico-amministrativa di ogni ministro. Se così fosse, infatti, egli potrebbe commettere qualunque reato, ponendosi così al di sopra della legge, in palese contrasto con i principi dello Stato di diritto. È dunque il Parlamento, come detto, che deve svolgere questa valutazione politica. Ad esso compete solo escludere che il ministro abbia agito in nome di un superiore interesse statale o pubblico. Non altro: né se e quali altri interessi abbiano guidato la sua azione; né se in ciò egli abbia commesso reati.
Tant’è che, come ricordato all’inizio, nel caso di Catania il ministro fu assolto per non aver commesso il fatto nonostante il Senato aveva concesso l’autorizzazione a procedere, non riscontrando alcun interesse superiore nell’esercizio della sua funzione di governo. Queste sono dunque le coordinate costituzionali entro cui va inserita l’attuale vicenda che vede sempre Salvini, stavolta come ministro delle Infrastrutture, sotto processo al Tribunale di Palermo. È bene ricordarle in vista della sentenza del prossimo 20 dicembre – come con significativa ossessività egli non manca mai di ricordare – per prepararsi in caso di condanna ad un nuovo prevedibile attacco alla magistratura.