Il decreto Paesi sicuri

Il Decreto spazza naufraghi è destinato a un altro flop: così Meloni cerca di eludere Costituzione e diritto internazionale

In seguito al provvedimento della destra sui migranti, il Tribunale di Bologna si è rivolto alla Corte di Giustizia europea, la quale non potrà che ribadire come la legge appena varata non va applicata in quanto viola il principio di eguaglianza. Salvini deve rassegnarsi: il diritto d’asilo è inviolabile

Politica - di Salvatore Curreri

6 Novembre 2024 alle 16:00

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Heri dicebamus. Certo, non è elegante citarsi, ma la decisione del Tribunale di Bologna di chiamare in via pregiudiziale la Corte di giustizia di Lussemburgo a pronunciarsi sulla conformità al diritto europeo del decreto legge sui cosiddetti Paesi sicuri (n. 158/2024) conferma esattamente quanto qui ipotizzato lo scorso 25 ottobre. E cioè che tale decreto, al di là dei proclami propagandistici, serviva essenzialmente a prendere tempo.

Come si ricorderà, infatti, il Governo ha approvato lunedì 23 ottobre tale decreto legge dopo che il venerdì precedente il Tribunale di Roma aveva deciso di non convalidare il trattenimento dei dodici migranti provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh trasferiti in Albania. Ciò alla luce di quanto stabilito dalla Corte di giustizia Ue secondo cui un Paese non può dirsi sicuro se talune parti del suo territorio non lo sono. Nella loro pronuncia, però, i giudici romani avevano fatto un passo in più, ritenendo insicuro il Paese in riferimento non solo a parti del territorio ma anche alla condizione soggettiva dei migranti, perché appartenenti a categorie di persone soggette a persecuzioni personali per motivi diversi (sesso, razza, lingua, religione, condizioni personali, opinioni politiche) riconducibili al principio d’eguaglianza. Per poter continuare ad applicare la cosiddetta procedura accelerata di frontiera – che prevede giustappunto il celere respingimento dei migranti provenienti dai Paesi considerati ope legis sicuri (non solo quindi quelli trasferiti in Albania) – il governo ha ribadito la definizione territoriale di Paese sicuro (semplicemente espungendo dalla precedente lista Colombia, Camerun e Nigeria), omettendo invece d’intervenire sull’eccezione soggettiva riguardante le categorie di persone, di fatto quindi confermandone l’esclusione.

Il fatto che tale elenco sia oggi previsto da un decreto legge – e quindi da una fonte primaria – anziché da un decreto ministeriale (fonte secondaria), non risolveva certo il contrasto con il diritto dell’Unione europea in materia, per come interpretato dalla Corte di giustizia. Era dunque prevedibile che, di fronte alla scelta del Governo di non fare riferimento alle condizioni personali, il giudice – in questo caso di Bologna – interpellasse nuovamente la Corte di Lussemburgo per sapere se può considerarsi sicuro un Paese in cui determinate categorie di persone e specifici gruppi sociali sono oggetto di persecuzioni dirette in modo sistematico e generalizzato. L’esempio – ovviamente paradossale – in tal senso della Germania nazista o dell’Italia fascista, per quanto discutibile sotto il profilo dell’opportunità politica – è giuridicamente efficace perché dimostra come un Paese territorialmente sicuro per l’ordine che vi regna possa non esserlo per quanti – ebrei, omosessuali, oppositori politici – vi sono perseguitati.

Si tratta dunque di una decisione che, anziché criticata, va apprezzata per la sua prudenza, dato che i giudici avrebbero anche potuto, sulla scia del Tribunale di Roma, decidere di non ritenere sicuro il Paese che perseguita talune minoranze anziché rimettere correttamente la questione interpretativa alla Corte di giustizia. In tal senso, non c’è alcuna invasione di campo della magistratura nella politica circa la definizione di Paese sicuro. Non c’è dubbio, infatti, che si tratti di una decisione politica, che anzi sarebbe il caso sia assunta a livello europeo per evitare che, come oggi accade, un Paese sia considerato sicuro da uno Stato Ue e non sicuro da un altro. Ma, come avviene in ogni Stato costituzionale di diritto, le decisioni politiche non sono insindacabili quando sfociano nella irragionevolezza e nell’arbitrio. Nel nostro caso, infatti, a non considerare sicuri alcuni Paesi per alcune categorie di persone non sono stati i giudici ma lo stesso governo in base alle schede redatte dallo stesso Ministero degli Esteri sulla scorta delle informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento.

Inoltre non va dimenticato che una delle tre forme in cui si traduce il diritto di asilo sancito nella nostra Costituzione (oltre alla protezione sussidiaria e a quella speciale) è il diritto di rifugio politico, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 secondo cui “nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Convenzione internazionale sulla condizione giuridica dello straniero cui il legislatore, secondo l’art. 10 della nostra Costituzione, deve conformarsi.

Le iniziative leghiste di questi giorni, dirette ad affermare il primato del diritto nazionale su quello europeo, oltreché propagandistiche, sono dunque anche parziali e sbagliate perché la subordinazione del legislatore nazionale alle norme e ai trattati internazionali sulla condizione giuridica degli stranieri costituisce un principio fondamentale immodificabile della nostra Costituzione. Se così è, azzardando nuovamente un pronostico, credo che i giudici di Lussemburgo non potranno che ribadire che un Paese non è sicuro se perseguita alcune categorie di persone per motivi in contrasto con il principio d’eguaglianza che ne ledono la loro pari dignità sociale. Nel frattempo, però, come scritto, il governo cercherà di ottenere da Bruxelles l’entrata in vigore prima del 12 giugno 2026 della disposizione secondo cui un Paese può essere definito sicuro “con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili”. Disposizione che già ora si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia e la cui legittimità, dunque, sarà tutta da verificare.

Un’ultima notazione, apparentemente procedurale, in realtà di merito. Dopo un indecoroso balletto del governo su dove presentare il disegno di legge di conversione del decreto legge sui cosiddetti Paesi sicuri – prima al Senato, poi, dopo la firma di Mattarella il 23 ottobre, alla Camera, poi nuovamente al Senato dopo le proteste dei senatori – lo scorso 30 ottobre la Conferenza dei capigruppo della Camera ha deciso che il testo del decreto legge confluirà sotto forma di emendamento al cosiddetto decreto flussi (n. 145/2024 dell’11 ottobre), atteso nell’Aula di Montecitorio il prossimo 21 novembre. È la tecnica dei cosiddetti decreti matrioska per cui un decreto legge viene lasciato decadere dopo 60 giorni ma il suo testo viene inserito nel disegno di legge di conversione di un altro decreto legge, conservandone gli effetti. Il che, però, riduce i tempi di esame parlamentare.

È vero che si tratta di una pratica purtroppo non nuova ma essa “arreca «un pregiudizio alla chiarezza delle leggi e alla intellegibilità dell’ordinamento» (Corte cost. 58/2018) e, soprattutto ad essa si dovrebbe ricorrere “solo in casi eccezionali e con modalità tali da non pregiudicarne l’esame parlamentare” (così il Presidente Mattarella il 23 luglio 2021). Monito che il Governo, ricorrendo a tale stratagemma, ha deciso di non rispettare, impedendo al Parlamento l’esame approfondito di un decreto così importante e, come visto, dai complessi e delicati risvolti giuridici.

6 Novembre 2024

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