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Via dell’Amore, alle Cinque Terre nuovo crollo dopo il crac di 12 anni fa
Dopo le rumorose inaugurazioni e il risveglio di imprenditori pronti a cogliere - a spesa delle casse pubbliche - il momento magico, si avvertono ora il silenzio e l’imbarazzo
Editoriali - di Ammiraglio Vittorio Alessandro

Non erano trascorsi tre mesi dal mio insediamento alla presidenza del Parco nazionale delle Cinque Terre quando una frana investì, sulla via dell’Amore, quattro turiste australiane, riducendone due in gravi condizioni (guarirono in fretta, per fortuna, e ci rimasero amiche).
Da allora – era il 2012 – sul sentiero ormai chiuso iniziò una girandola di pressioni intese a rassicurare: la giunta regionale di Burlando ne dava per certa l’imminente riapertura e cominciavano, già allora, a prospettarsi iniziative miranti a collegare il grande impegno economico necessario al risanamento del sito con una sua gestione di tipo imprenditoriale. Si consumava, così, un doppio torto: la frana – dopo l’alluvione che, non molto tempo prima, aveva investito Vernazza e Monterosso – avrebbe dovuto, piuttosto, ammonirci su quanto siano fragili i versanti delle Cinque Terre, in cui l’ostinata applicazione degli abitanti (le donne, soprattutto) aveva ricavato, nel tempo, spazi quasi impossibili per la coltura di viti sospese tra la roccia e il mare, e l’equilibrio misurato dei muretti a secco che tengono fermo il terreno e regimentano le acque. L’altro torto era quello di sottrarre la via dell’Amore – esile sentiero che unisce Riomaggiore e Manarola e che è da corrersi d’un fiato, raccomandavano i vecchi – alla rete di tutti gli altri sentieri del Parco nazionale: con tariffe a parte e con guadagni (assicurati) a parte.
La regia del governatore Toti, sullo sfondo, assicurava un futuro a questa prospettiva. Delle Cinque Terre, la via dell’Amore è l’elemento di maggior richiamo. Tanto bastò – nella logica che ha già ridotto Venezia e Firenze in paesaggi di plastica, buoni soltanto per incassare dal turismo che rapina nell’arco di un giorno – per avviare un costosissimo percorso di ristrutturazione, imbrigliando la montagna, impreziosendo il sentiero, sistemandovi tornelli e segnali. Dopo dodici anni di cantiere e un costo finale che ammonta a trenta milioni (cui sono ancora da conteggiare le opere di protezione a mare) è finalmente arrivata, nel luglio scorso, la riapertura. L’ultima ondata di maltempo abbattutasi sulla Liguria qualche giorno fa ci ha però riportati al punto di partenza, con una frana proprio nello stesso luogo in cui cadde nel 2012 (stavolta, per fortuna, senza danni alle persone).
Dopo le rumorose inaugurazioni e il risveglio di imprenditori pronti a cogliere – a spesa delle casse pubbliche – il momento magico, si avvertono ora il silenzio e l’imbarazzo. Un comunicato della sindaca di Riomaggiore avvisa che “il distacco del materiale roccioso è stato fermato dalla rete paramassi” e, in un rigo più sotto, che “il maltempo ha provocato il cedimento della rete”: la rete, insomma, ha fermato, ma non ha fermato. Non si può imbrigliare la montagna, al massimo si possono attenuarne i cedimenti, sempre assecondandone la natura. E se anni fa (sembrano tanti, ma è l’altro ieri) i vecchi del borgo – gli stessi che costruivano le loro piccole case ben lontano dai corsi d’acqua che si fanno fiume in inverno – raccomandavano prudenza, non si può tradire spavaldamente la loro saggezza e la consistenza dei luoghi: occorre, con rispetto, muoversi negli spazi e nei modi dati.
Se ciò ai turisti non piace, se essi credono che le Cinque Terre siano in pianura, da percorrere in sandali o in ballerine, pazienza. La Liguria, straordinariamente affacciata sul mare, non può proporre ai visitatori più attenti che se stessa, e la difficile consistenza della propria bellezza.