Le esecuzioni capitali in Pakistan
Morte sociale, la doppia condanna dei cristiani pakistani
L’alto numero di esecuzioni capitali in Pakistan travisate da motivazioni morali e confessionali contrasta con la fisionomia sociale della sua classe politica
Esteri - di Domenico Bilotti
Shagufta Kausar è una signora pakistana col viso paffuto e i lineamenti marcati da poche rughe d’espressione. Un trattamento estetico che può venire solo da una sconfinata fiducia nel genere umano. Le pressioni cui è stata sottoposta, altrimenti, avrebbero invecchiato corpo e cuore di chicchessia. Shagufta e il marito Shafqat hanno passato sette anni della loro vita attendendo una condanna a morte per blasfemia, che fortunatamente è stata revocata nel 2021. L’uomo è paralizzato dal 2004: avrebbe riportato la lesione spinale cercando di sedare una rissa in cui spuntarono armi da fuoco.
Marito e moglie hanno sempre condotto un’esistenza dignitosa, pacifica, in un Paese povero dove i conflitti sotterranei sono spesso di natura etnica e religiosa. Curiosamente, i due hanno una modestissima alfabetizzazione di base, acquisita negli anni, ma nel loro libello accusatorio la condotta che integrava la fattispecie di blasfemia era riferita alla divulgazione di un messaggio irrispettoso nei riguardi del profeta Maometto. Ben strana interpretazione del dettato coranico classico, se proprio attraverso l’islamizzazione furono accantonati quegli usi clanici tribali che impedivano a storpi, menomati e disagiati di consumare i pasti in comune. Fatto sta che Shagufta è sopravvissuta a una cosa ancora più difficile della lama di ghigliottina o della scossa elettrica o dell’inalazione venefica o dell’impiccagione (che è la modalità di esecuzione della sentenza capitale nel Paese).
Ha convissuto sette anni con la cattiva compagnia di un fantasma: la chiamata a recarsi, dalle “stanze della morte”, come sono definite le celle dei condannati, fino al luogo dell’esecuzione. Senza possibilità giuridica, per altro verso, di essere assistita in quell’atroce momento. Per fortuna, la Corte suprema del Pakistan è ritornata alla dottrina penalistica classica, quella che ha sempre dato risalto alla consapevolezza e alla volizione del soggetto agente. Con un interessante overruling del 2021 ha ammesso che la pena di morte non realizza fini di giustizia quando è irrogata contro persone che non comprendano la fattispecie criminosa di cui si sono macchiate. Shagufta ha vissuto le stanzette della morte a poche cancellate di distanza da Asia Bibi, una donna di grande tenacia e coraggio che è diventata il simbolo delle persecuzioni religiose nel nuovo millennio, un’altra convenuta per risibili allegazioni di blasfemia.
Il Pakistan è uno Stato complesso; l’alto numero di esecuzioni capitali travisate da motivazioni morali e confessionali contrasta con la fisionomia sociale della sua classe politica. La quale si riconosce sulla carta in una sorta di bipolarismo secolare, dove c’è un partito popolare socialdemocratico storicamente influenzato dal laburismo riformista e un’unione musulmana che adotta statuariamente principi liberali (dalla composizione elettiva di alcuni organi fino al conservatorismo anti-statalista in materia fiscale e commerciale). Il potere, del resto, possiede specchi sempre più belli del suo corpo. Qui, la fondazione della capitale Islamabad negli anni 70 ha rappresentato le vanaglorie di un ceto dirigente che voleva darsi un tocco creativo e palingenetico, facendo tabula rasa dei pregressi dati storici e culturali. Qui, è vero, le accuse di blasfemia difficilmente sfociano in impiccagioni – ma ancora accade e le moratorie contro la pena di morte sono presto o tardi tutte naufragate dietro proclami di ordine e sicurezza pubblica, guarda caso sempre legati a momenti di grande tensione sociale.
Shagufta Kausar ci ammonisce sulla parte più importante del problema: i cristiani denunciati, anche quando vengono riconosciuti innocenti, hanno difficoltà a reinserirsi nella vita di ogni giorno, che siano le periferie della metropoli Caraci o l’entroterra, sono discriminati nei rapporti di vicinato, nessun legale patrocinante o quasi è disposto ad assumerne le ragioni. Proprio la bandiera pakistana ha una linea bianca sulla sinistra: nelle intenzioni dei fondatori, era la garanzia della libertà religiosa per le minoranze. Così non è stato, e come in tutti i Paesi dove c’è la pena di morte, non manca una morte per pena, e viceversa: il boia può agire con una corda o stravolgendo la vita per sempre. Non dorme mai.
*Docente di diritto ecclesiastico Università “Magna Graecia” di Catanzaro