Le polemiche leghiste
Omicidio di Sharon Verzeni, la lezione dei testimoni a Salvini: “Se il killer è di origini straniere, lo siamo anche noi”
La risposta allo sciacallaggio politico di Matteo Salvini e della Lega sull’omicidio di Sharon Verzeni arriva dai due testimoni chiave che hanno aiutato le indagini di carabinieri e procura a fermare Moussa Sangare.
A fronte delle parole del vicepremier e ministro, che aveva sottolineato come il 31enne fosse di “origini nordafricane e cittadinanza italiana” e auspicando “pena esemplare, senza sconti”, e con compagni di partito come Laura Ravetto che si chiedeva che “sono questi i nuovi italiani a cui aspiriamo”, in aperta polemica sul dibattito riguardante lo Ius Scholae, a smontare la narrazione tossica del Carroccio sono i due giovani che hanno permesso la svolta nell’inchiesta sulla morte della 33ene di Terno d’Isola uccisa il 30 luglio scorso.
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Venerdì in conferenza stampa la procuratrice di Bergamo Maria Cristina Rota aveva infatti rimarcato come Sangare fosse stato identificato “grazie alla testimonianza di due cittadini stranieri ma regolari che si sono presentati spontaneamente raccontando ciò a cui avevano assistito”.
I due ragazzi in questione sono un 23enne e un 25enne di origini marocchine, che hanno fornito un aiuto decisivo ai carabinieri nell’identificazione dell’uomo in bicicletta che ha poi confessato, Moussa Sangare.
Oggi i due parlano a Repubblica in una intervista che è anche una risposta alle polemiche della Lega. “Abbiamo avuto la cittadinanza da ragazzini, a 15 anni. Vogliamo far riflettere che se il killer è di origini straniere, lo siamo anche noi. Forse senza la nostra testimonianza sarebbe libero. Pensiamo di aver fatto il nostro dovere”, le loro parole.
Poi il racconto si sposta su quella notte del 30 luglio, quando Sharon viene uccisa in strada. I due testimoni raccontano che erano usciti tardi “come al solito per allenarci. Era più o meno mezzanotte, eravamo a Chignolo vicino alla farmacia davanti al cimitero, dove ci siamo fermati per fare delle flessioni. A quel punto sono passati due nordafricani in bicicletta, poi un terzo. Lui ci è rimasto impresso, perché era un po’ strano. Aveva una bandana in testa e un cappellino, uno zaino e gli occhiali. Ci ha fissato a lungo e poi ci ha fatto una smorfia. Non lo avevamo mai visto prima”.
I due ragazzi aggiungono poi di aver “raccontato di quel ragazzo quando siamo stati chiamati in caserma. A un certo punto ci hanno fatto anche i complimenti perché ci ricordavamo tutto”.
Ora, spiegano i due, “ci sentiamo orgogliosi per essere stati utili all’identificazione dell’assassino. Il rimpianto che ci resta è non aver potuto fare qualcosa per Sharon. Non essere stati più vicini a via Castegnate. In quel caso forse avremmo potuto salvarla. Magari l’assassino ha visto una preda facile, come quei due ragazzini che voleva aggredire. Quando ha incrociato noi, invece, ci ha solo guardato male ed è andato avanti”.