Il ricordo dell'ex senatore

Lino Jannuzzi, chi era il grande giornalista perseguitato dalle toghe

Il 7 agosto è morto Lino Jannuzzi, giornalista ed ex senatore di Forza Italia che durante i suoi anni di carriera si è trovato più volte a dover affrontare problemi giudiziari legati a inchieste e denunce che erano riuscite a turbare l’élite democristiana dei tempi

Editoriali - di David Romoli

9 Agosto 2024 alle 14:30

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Lino Jannuzzi, chi era il grande giornalista perseguitato dalle toghe

Il 3 maggio 1967, alla Camera, si discuteva dello scandalo che teneva banco su tutte le testate già da mesi: quello dei dossier del Sifar, il servizio segreto nel frattempo ribattezzato Sid senza ulteriori riforme se non il cambio di nome. La torbida vicenda era emersa in seguito alla guerra spietata, a colpi di dossier e rivelazioni incrociate ai giornali, tra il generale De Lorenzo, considerato allora quello “democratico” e difeso a spada tratta dal Pci (ma non dalla Sinistra indipendente di Ferruccio Parri) e il suo superiore Aloia, uomo, invece, di destra, invaghito dalla dottrina allora in voga della “guerra non convenzionale”: infiltrazioni, provocazioni, attentati.

Lo scandalo era stato ed era ancora enorme ma la vicenda era nota, nulla di particolarmente succulento per i cronisti d’assalto. A parlare poi era il socialista Luigi Anderlini, non un nome di primo piano. L’aula era semivuota. L’attenzione dei giornalisti in tribuna poco concentrata. Così, quando l’oratore alluse a un progetto di colpo di Stato partorito tre anni prima da “un generale, se non vado errato, a quell’epoca Comandante dei carabinieri, ricevuto dal presidente della Repubblica”, nessuno tra i pochi giornalisti presenti ci fece caso. Tranne uno: Raffaele Jannuzzi detto Lino, 39 anni, capo del politico del settimanale L’Espresso. Il periodico era in edicola già da 12 anni, diretto fino al 1963 da Arrigo Benedetti. Nel ‘63 la direzione era passata al dinamico co-fondatore e, sino a quel momento, direttore amministrativo Eugenio Scalfari, che aveva impresso un’accelerazione drastica: già l’anno successivo il giornale aveva sfondato il muro delle 100mila copie, nel 1965 aveva introdotto il colore e nel ‘67 aveva aggiunto un inserto monografico tutto a colori. Era il giornale che faceva tendenza.

Jannuzzi, cronista di razza, si mise al lavoro. Alla fine della seduta andò da Anderlini che gli indicò come sua fonte, un altro socialista, Pasquale Schiano. Quest’ultimo passò al reporter il nome di numerosi ufficiali dell’Arma, informati sul progetto di golpe. Jannuzzi era figlio di un maresciallo di carabinieri e sapeva il fatto suo. Si presentò di fronte ai graduati quasi come “uno di famiglia” e assicurò di avere un unico obiettivo: “difendere il prestigio” dell’adorata Arma. Il 10 maggio le agenzie di stampa potevano già diffondere un’anticipazione esplosiva: il numero de L’Espresso in edicola il giorno seguente, avrebbe diffuso clamorose rivelazioni su un possibile golpe nell’estate del 1964. Moro e Saragat, cioè i due politici che nel ‘64, erano stati tenuti sotto ricatto dalla minaccia di golpe passata alla storia come “Piano Solo”, reagirono furiosamente, smentirono indignati, difesero a spada tratta l’ex presidente Segni. Saragat si disse «Disgustato». Il titolo del settimanale in edicola l’11 maggio non la toccava lieve: “Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di Stato”. All’interno campeggiava l’inchiesta di Jannuzzi, che era riuscito a scoprire la riunione del 14 luglio 1964, quando tutti i comandanti dell’Arma, una ventina e passa di alti ufficiali erano stati convocati a Roma da De Lorenzo perché si preparassero a rendere operativo, se necessario, il “Piano” che prevedeva l’occupazione militare delle federazioni del Pci e del Psi, il presidio militare delle principali città, l’arresto e la deportazione di 731 persone, inclusi molti leader politici.

La bomba esplose subito, ma non era che l’inizio. Il 12 maggio Scalfari e Jannuzzi volarono a Parigi per intervistare Parri, che confermò nella sostanza le accuse e si lanciò a testa bassa nella campagna di denuncia con il suo periodico L’Astrolabio. Poi i due giornalisti passarono a Nenni, che un po’ confermò e un po’ smentì, con una imbarazzata lettera di cui lo stesso leader socialista si disse, nel suo diario, «Scontento». Poi fu il turno dei generali, che qualcosa ammisero e sulla base di quella raffica di articoli l’Arma avviò un’indagine interna, affidata al generale Manes. Doveva essere uno scudo, fu quasi il colpo di grazia. I collaboratori del De Lorenzo, Comandante dei carabinieri, tra i quali Dalla Chiesa, confermarono che gli “enucleandi”, al secolo la lista delle persone da arrestare, c’era davvero. L’Espresso, di fronte al muro di gomma della politica, voleva probabilmente essere denunciato. Per questo il direttore e il capo del politico, titolare dell’inchiesta, Jannuzzi, caricarono sempre più i toni. Il generale, subodorando la trappola, cercò di evitare il passo fatale. A querelare, in luglio, fu un altro ufficiale, il colonnello Filippi, uno di quelli presenti alla riunione del 14 luglio ‘64. Scalfari e Jannuzzi non si accontentarono. A fine settembre il direttore pubblicò un durissimo attacco personale contro De Lorenzo, che stavolta non potè fare a meno di querelare.

La causa De Lorenzo-L’Espresso fu il grande evento politico e mediatico dell’inverno 1967-68. La prima udienza, di fronte alla IV sezione del Tribunale di Roma, si svolse l’11 novembre, il processo si concluse l’8 febbraio. I documenti presentati e poi ritirati in nome del segreto di Stato, la raffica di omissis che miravano sin troppo platealmente a nascondere la verità, la reticenza dei politici coprirono di discredito l’intero ceto politico e lo stesso Stato. Il pm, Vittorio Occorsio, chiese in aula l’archiviazione. La Corte decise di proseguire lo stesso. Jannuzzi capì l’antifona. Il 23 dicembre dichiarò di fronte alla Corte che «nessuna responsabilità» poteva «farsi risalire al capo dello Stato dell’epoca». Era uno scambio: uno dei principali accusati accettava di “assolvere” Segni, e con lui la Dc impegnata a coprire il presidente ancora vivo, pur se molto malato. De Lorenzo si sentì, non a torto, trasformato in unico capro espiatorio. In Parlamento la situazione era altrettanto tesa. Anderlini, sfidando il divieto, lesse in aula alcuni passaggi del rapporto Manes coperti dagli omissis e il solitamente calmo Aldo Moro si infuriò pubblicamente come mai prima. Nella sua requisitoria, Occorsio chiese l’assoluzione degli imputati. Il primo marzo 1968 la Corte condannò, invece, a 16 mesi Jannuzzi e a 17 Scalfari. Una eloquente coincidenza fece sì che la clamorosa, e scandalosa, sentenza venisse emessa proprio mentre a Valle Giulia per la prima volta gli studenti si scontravano per ore con la polizia.

La sentenza non tranquillizzò De Lorenzo. Temendo ulteriori guai, accettò la candidatura nel Partito monarchico, che gli garantiva l’immunità parlamentare, e poi passò direttamente al Msi. I condannati ottennero piena solidarietà da parte anche di forze politiche di governo come il Psi e il Pri. I socialisti, sempre come scudo offrirono anche candidatura e seggio sia a Scalfari che a Jannuzzi. L’Espresso, diretto ora da Gianni Corbi, proseguì comunque nella sua campagna. De Lorenzo querelò di nuovo Corbi e il cronista Gregoretti ma stavolta perse, con una sentenza che, nelle motivazioni, diceva l’esatto opposto di quella che aveva condannato Scalfari e Jannuzzi. Non fu l’ultimo guaio giudiziario per Lino Jannuzzi, e forse neppure il peggiore e il più assurdo e scandaloso. Negli anni ‘80 e ‘90 il giornalista, diventato nel frattempo direttore de il Giornale di Napoli, mosse critiche molto severe e del tutto fondate ai magistrati che avevano imbastito il caso Tortora, Giorgio Fontana, il giudice istruttore, e i due pm, Lucio Di Pietro e Felice di Persia. Fontana querelò il direttore che alla fine fu condannato a 2 anni, 5 mesi e 10 giorni. È vero che le prove contro Tortora si erano davvero rivelate inconsistenti, come aveva denunciato Jannuzzi, ma dal momento che nessuno aveva messo sotto inchiesta i magistrati titolari dell’inchiesta, e i due pm avevano, anzi, fatto una brillante carriera, la Corte concluse che sempre di diffamazione si trattava.

Il giornalista era nel frattempo stato eletto nelle liste di FI ma lo scudo dell’immunità parlamentare non era più quello di un tempo. Jannuzzi e il giornalista Sergio De Gregorio, anche lui senatore azzurro, furono anche condannati a risarcire Fontana, dopo una seconda querela, con 280mila euro. Il Tribunale di Napoli ottenne comunque l’ordine d’arresto per Jannuzzi, e solo l’intervento della Farnesina riuscì a ottenere un differimento di due anni dal momento che il giornalista faceva ora parte del Consiglio d’Europa. Ma nel giugno del 2004 la condanna diventò esecutiva: il senatore fu messo ai domiciliari con diritto di uscire per obblighi parlamentari dalle 8 alle 19 e con la mannaia del vero e proprio carcere pendente. Ci sarebbe finito davvero se il presidente della Repubblica Ciampi non lo avesse graziato, il 16 febbraio 2005. C’è un terzo processo che ha visto il cronista appena scomparso sul banco degli imputati. Nel dicembre 2001 parlò su Panorama di un incontro segreto a Lugano tra quattro magistrati, due italiani, uno svizzero e uno spagnolo, con all’odg un argomento di nuovo esplosivo: l’arresto di Silvio Berlusconi. Jannuzzi promise di fornire le prove, non lo fece e il risarcimento pagato dalla Mondadori e dal direttore responsabile di Panorama fu nell’ordine dei 250mila euro.

9 Agosto 2024

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