Il caso a Opera
La fine di Giuseppe Di Benedetto: condannato all’ergastolo, morto per pena
Negli ultimi 6 anni, come rilevato da Antigone, oltre 24mila detenuti hanno ricevuto, con il risarcimento del danno arrecato, il riconoscimento certificato da parte del proprio magistrato di sorveglianza della violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: ovvero di aver subito tortura e trattamenti inumani e degradanti.
Giustizia - di Diana Zogno
«Percorriamo il nostro viaggio in luoghi sacri, perché qui avvengono sacrifici, preghiere, pentimento, dolore e speranza», sottolinea Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno tocchi Caino. Siamo all’interno del carcere di Milano-Opera, dove anche il tempo non sembra scorrere in modo lineare, né lo spazio può essere pensato come definito. Le idee e i ricordi si mescolano mentre scorrono liberi nei lunghi corridoi labirintici, tra le celle, oltre le finestre e il passare dei decenni. Nello scorrimento caldo e silenzioso di fine giugno a Milano, Nessuno tocchi Caino svolge il proprio incontro mensile all’interno della sala del teatro Marco Pannella della Casa di Reclusione con la partecipazione dei detenuti coinvolti nel laboratorio, meno uno: Giuseppe Di Benedetto, recluso da 34 anni e morto la settimana prima a causa di una, ultima, caduta, dovuta alle gravi patologie di cui soffriva da tempo, tra cui il morbo di Parkinson all’ultimo stadio: condizioni giudicate non sufficienti dal magistrato di sorveglianza per una sospensione della pena, per andare a casa e cercare il conforto familiare.
Il ricordo di Giuseppe, in linea con il precedente appuntamento Compresenza tenuto a Opera a maggio per ricordare Mariateresa Di Lascia, Marco Pannella ed Enzo Tortora, è il fil rouge della prima parte del laboratorio: i detenuti, amici di Giuseppe, raccontano commossi la storia del suo percorso umano da detenuto, la forza, il suo atletismo. Giuseppe era silenzioso, per loro un amico fraterno, con cui ridere e da aiutare nelle attività quotidiane di cura della salute e di igiene oltreché di speranza personale – di cui Giuseppe non riusciva più a occuparsi da solo e per cui nessun supporto, al di fuori dell’affetto dei compagni detenuti e detenenti, era stato previsto. Così, tentato l’ultimo di tantissimi gradini scesi e saliti, Giuseppe è caduto e il silenzio si è rotto.
Il ricordo più commosso che arriva sul palco è quello di Antonio Aparo, anche lui detenuto a Opera e fratello di una vittima di Giuseppe Di Benedetto. Giuseppe e Antonio, Antonio e Giuseppe, le cui vite si erano per anni incrociate come specchi riflessi in esperienze di faide, violenza e morte, avevano ritrovato nel carcere il proprio comune denominatore umano, il pensiero e poi la forza di trasformare negli anni l’odio e la vendetta, in conversione e comprensione dell’altro: una vita nuova. Con fatica rotta dal pianto, Antonio dice poche parole: «Mio fratello è morto per la seconda volta». Il miracolo del perdono? No. Un’esperienza umana fatta di anni di odio, espiazione, dolore, comunione, conversione e accettazione, di cui detenuti e detenenti sono stati testimoni, anche se Giuseppe non c’è più, ma come ci fosse ancora, a raccontare che la sua pena umana per quel crimine orribile era già stata scontata. La sua morte annunciata, invece, poteva essere evitata.
Non è presente solo Giuseppe: altre anime guardano mentre si discute di una giustizia giusta, della necessità di liberazione anticipata speciale, del riconoscimento di innocenza per una persona che ha già espiato l’ergastolo umanamente possibile, del principio di ordine e di armonia che deve essere ripristinato nel sistema di esecuzione delle pene perché «la Legge è fatta sì di ordine, ma anche di coscienza», ricorda Sergio D’Elia, segretario dell’associazione. Marco Pannella, Mariateresa Di Lascia, Enzo Tortora “accompagnano” il dibattito, avendo dato la forma, e quindi la sostanza, a quel concetto di Giustizia Giusta e di Spes contra Spem per cui oggi Nessuno tocchi Caino è in prima linea nella richiesta di interventi legislativi contro il sovraffollamento e le condizioni inumane e degradanti in cui tutt’ora vivono detenenti e detenuti all’interno degli istituti penitenziari italiani. Come, del resto, già riconosciuto nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Torreggiani.
Nel frattempo, negli ultimi 6 anni, come rilevato da Antigone, oltre 24mila detenuti hanno ricevuto, con il risarcimento del danno arrecato, il riconoscimento certificato da parte del proprio magistrato di sorveglianza della violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: ovvero di aver subito tortura e trattamenti inumani e degradanti. Le morti per suicidio, 52 da inizio anno, scandiscono il tempo dell’urgenza: il prossimo 17 luglio, la Camera dei Deputati, voterà la proposta di legge presentata da Roberto Giachetti e Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino contro il sovraffollamento e la permanenza di uno stato di illegalità all’interno degli istituti penitenziari. Di altro tempo e altro spazio non ce n’è più.