L'attacco di Meloni
Inchiesta sui Giovani Fdi: nessun “metodo da regime”, è la democrazia bellezza
Meloni ha parlato di metodi da regime, ma è un’inchiesta giornalistica come se ne sono fatte tante nel resto del mondo libero, lecita e rispettosa della deontologia professionale
Editoriali - di Salvatore Curreri
Le accuse della Meloni (come presidente del Consiglio o presidente di Fratelli d’Italia?) contro Fanpage, reo di aver utilizzato “metodi da regime” nell’inchiesta sull’organizzazione giovanile del suo partito, infiltrandosi al suo interno e riprendendone le riunioni, meritano di essere valutate innanzi tutto sotto il profilo giuridico. Ciò non perché si voglia sottovalutare la estrema gravità politica di quanto emerso, peraltro ammessa senza indugi dai dirigenti di quel partito, ma perché tali accuse hanno messo addirittura in discussione la nostra democrazia, con tanto di appello al Quirinale (da cui, come prevedibile, non è arrivata alcuna replica).
Da qui la necessità di ricondurre il dibattito sviluppatosi entro le sue corrette coordinate giuridico-costituzionali, che costituiscono sempre un solido punto di riferimento cui ancorarsi quando entrano in gioco, come in questo caso, interessi costituzionali diversi: il diritto del partito ad organizzarsi e svolgere la propria attività in modo autonomo e riservato; il diritto della stampa ad informare e quello, correlato, dell’opinione pubblica e, specificamente, degli elettori ad essere informata. Il punto di partenza è l’articolo 2 del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali secondo cui il giornalista, nell’esercizio della sua attività, deve rendere “note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta” dei dati personali. A questa regola tale articolo introduce delle eccezioni, consentendo al giornalista di lavorare “sotto copertura” quando il rivelare la sua identità potrebbe comportare “rischi per la sua incolumità” (ad esempio in caso di attività all’interno di organizzazioni criminali) oppure – ed è ciò che più rileva ai nostri fini – quando ciò “renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”, evitando in ogni caso pressioni indebite e artifici (che sono altro dal ricorso all’identità fittizia, altrimenti la disposizione sarebbe contraddittoria).
Quest’ultima eccezione – non a caso omessa da taluni commentatori – è invece la chiave di volta del problema perché, nel bilanciamento tra gli interessi costituzionali di cui sopra, si è fatta una precisa scelta: il diritto all’informazione prevale sul diritto di sapere di essere oggetto di una inchiesta giornalistica. Il motivo è lapalissiano: se non si fosse fatto ricorso a riprese occulte, la funzione informativa del giornalista non avrebbe potuto conseguire l’obiettivo di fare luce su quanto davvero taluni pensano e dicono nelle organizzazioni giovanili di Fratelli d’Italia. O qualcuno è così ingenuo o in mala fede da credere che gli intervistati avrebbero candidamente confessato il loro antisemitismo se avessero saputo di essere ripresi? Suvvia… Il giornalista che, celando ruolo e identità, diffonde informazioni registrate di nascosto (ovviamente senza aver ricevuto la cosiddetta liberatoria) non compie dunque alcun illecito penale o deontologico quando vi è un prevalente interesse pubblico alla diffusione della notizia (v. Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 febbraio 2015, caso Haldimann c. Svizzera).
Questo principio è stato peraltro più volte applicato ai cosiddetti vip (politici inclusi) il cui diritto alla riservatezza è destinato a cedere di fronte al diritto all’informazione perché, in ragione della loro notorietà, sempre esposti al giudizio della pubblica opinione per quei fatti privati che possono avere una rilevanza pubblica. Ciò non perché si voglia accondiscendere alla morbosa curiosità dell’opinione pubblica ma per informarla su aspetti della sfera privata rilevanti ai fini del giudizio sull’effettiva coerenza tra idee pubbliche e stile di vita privato. Sotto questo profilo mi pare evidente che ci sia un chiaro interesse pubblico, a partire dallo stesso partito coinvolto, a conoscere i rigurgiti razzisti e nazisti che albergano ancora in una parte di esso, vista e considerata l’afasia che caratterizza le dichiarazioni pubbliche di taluni suoi dirigenti quando costretti, anche a causa di poco sopportate ricorrenze, a pronunciarsi sul tema del fascismo.
Ma – si è opposto – tutto questo non vale per i partiti politici il cui diritto alla riservatezza va maggiormente tutelato proprio perché sono lo strumento fondamentale, ancorché non unico, attraverso cui i cittadini partecipano alla vita politica nazionale. Violare tale sfera di autonomia costituirebbe, si è detto appunto, un attentato alla democrazia. È un’obiezione priva di consistenza e le cui premesse, anzi, conducono a conclusioni esattamente opposte. È certamente vero che i partiti, al pari delle altre associazioni, hanno una sfera di riservatezza da tutelare in norme della loro autonomia organizzativa, così da non subire interferenze o ingerenze esterne da parte dello Stato. Ma rispetto alle altre associazioni, i partiti politici si contraddistinguono innanzi tutto proprio per la loro connaturata pubblicità della loro attività. Un partito segreto sarebbe una contraddizione in termini perché ogni partito deve massimamente rendere pubblici i propri fini e programmi per partecipare alla vita politica del paese ed ottenere i voti degli elettori i quali, di contro, hanno diritto di conoscerne programmi, finalità e organizzazione.
C’è una perfetta corrispondenza dunque tra il diritto del partito di informare l’opinione pubblica delle sue idee, programmi e attività e quello a sua volta dell’opinione pubblica di essere informata su di esse. Tale diritto all’informazione può andare oltre le comunicazioni ufficiali per espandersi anche alle attività e alle idee che maturano all’interno di un partito, che sono per loro natura pubblicamente rilevanti perché su di esse può basarsi il giudizio dell’elettorato, a prescindere che siano espresse da soggetti che ricoprono incarichi pubblici o da soggetti privati (per quanto nel caso in specie titolari nel partito di cariche di una certa responsabilità). Del resto è proprio in nome della corrispondenza tra linea politica e idee degli iscritti che il partito, a tutela della sua identità, può non solo respingere la domanda d’iscrizione di un elettore ma può espellere un iscritto quando le sue idee, anche se manifestate in privato, non corrispondono a quelle del partito.
Il diritto alla riservatezza non può quindi esser opposto di fronte al prevalente interesse dell’opinione pubblica ad essere informata su circostanze che, come emerso e ammesso dagli stessi dirigenti di Fratelli d’Italia, per quanto auspicabilmente marginali, non sono affatto irrilevanti ai fini della formulazione del giudizio dei cittadini elettori sulla sua linea politica. Tutta l’attività politica (da quella dei lobbisti alle fonti di finanziamento dei partiti) deve esser per sua natura ispirata alla massima trasparenza. Per questo la Costituzione vieta le associazioni segrete, tanto più quando si tratti di partiti, e impone a questi ultimi il metodo democratico, oggi declinato anche in riferimento alla loro democrazia interna. Peraltro, in questo caso l’attività di “infiltrazione” non è stata compiuta dallo Stato tramite ad esempio i suoi servizi segreti (il che sarebbe illegittimo, come dimostra quanto accaduto in Germania, dove la scoperta di tale infiltrazione ha portato all’annullamento del procedimento per la messa fuori legge per incostituzionalità del Partito nazionalista tedesco) ma da giornalisti nell’esercizio del loro diritto di cronaca.
Infine, quanto alla vittimistica considerazione circa l’inesistenza di precedenti di giornalismo investigativo all’interno dei partiti, c’è solo l’imbarazzo della scelta: nel 2019 in Austria scoppia lo scandalo Ibiza quando i giornalisti di Spiegel e Süddeutsche Zeitung pubblicano un video in cui il leader della FPÖ Heinz-Christian Strache (divenuto vice-cancelliere dopo le elezioni e poi costretto alle dimissioni a seguito di tale scandalo), in un incontro in una villa a Ibiza, promette a una presunta ereditiera russa vicina a Putin giganteschi favori anche illegali come appalti truccati in cambio della promessa di centinaia di milioni di euro per la campagna elettorale; nel 2024 in Germania un giornalista del sito Correctiv filma un clamoroso incontro segreto fra alcuni leader del partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) e diversi membri del movimento neonazista tedesco che discutevano un piano di «remigrazione», ovvero di espulsione di massa degli immigrati. Quanto all’Italia, sinceramente non ricordo analoghe reazioni della Meloni e di quanti ora si stracciano le vesti quando Fanpage rivelò le modalità a dir poco imbarazzanti in cui nel 2023 si svolsero le primarie del Partito democratico in Campania. Insomma, come efficacemente sintetizzato dal direttore di Fanpage, “se un partito politico spia un giornale, quello è regime. Se un giornale fa un’inchiesta su un partito politico, quella si chiama democrazia”.