Il conflitto in Ucraina
Le condizioni economiche per la pace di Emiliano Brancaccio, come uscire dalla barbarie
Un’analisi affilata che affonda la lama sul conflitto in Ucraina, legato alla crisi della potenza di fuoco Usa sui mercati e l’ascesa dei nuovi imperialismi fioriti ad Oriente. Atlantisti e putinisti resteranno scontenti
Cultura - di Marco Veronese Passarella
Il nuovo libro di Emiliano Brancaccio, Le condizioni economiche per la pace (Mimesis 2024), è destinato a scontentare sia gli “atlantisti” che i “putinisti”. Proprio per questo fornisce un’interpretazione razionale della guerra e una possibile via di pace. Sebbene i conflitti militari in corso siano condizionati anche da fattori territoriali, etnici e religiosi, gli attuali venti di guerra sono in ultima istanza la proiezione armata di una feroce contesa tra capitali: quelli delle declinanti potenze occidentali a guida statunitense da un lato e quelli delle nuove potenze emergenti dall’altro. Innesco delle guerre è la perdita progressiva di competitività dell’economia americana, con il suo debito verso l’estero emerso nella fase di globalizzazione deregolata post-sovietica ed esploso dopo la grande recessione del 2008. A partire da quel tracollo spartiacque entra in crisi il sistema di regolazione finanziaria che aveva consentito all’economia statunitense di accumulare debiti con il resto del mondo, in particolare con l’economia cinese. La retorica americana sui fasti del libero scambio ha così ceduto il passo alla paura che la Cina e altri paesi creditori non si accontentino più di riciclare i propri avanzi finanziando a buon mercato il Tesoro Usa, ma possano acquisire il controllo di attività strategiche occidentali. Un paradossale imperialismo delle ex periferie del mondo, con la Cina e le altre potenze emergenti nell’inedito ruolo bruegeliano dei forti che “mangiano” i “deboli”. E con gli Stati Uniti che quindi cercano di difendersi con una svolta protezionista.
Questo, in sintesi, è il punto di partenza della riflessione proposta da Emiliano Brancaccio in Le condizioni economiche per la pace, un pamphlet che sviluppa l’analisi già avviata con i colleghi Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli e altri nel precedente volume La guerra capitalista. Si tratta anche stavolta di un testo prezioso, che ci consente di dare una lettura materialista e anti-irrazionalista delle tensioni geopolitiche attuali. In particolare, la svolta protezionista statunitense – avviata da Obama, rilanciata da Trump e confermata da Biden – va letta come reazione ad una centralizzazione capitalistica sempre più sbilanciata verso oriente. Il cosiddetto friend shoring americano è un tentativo di salvaguardare la primazia statunitense dividendo il mondo in due blocchi geoeconomici contrapposti: da un lato gli “amici” degli Stati Uniti con cui mantenere e intensificare i rapporti commerciali e finanziari; e dall’altro i “nemici” creditori, su tutti Russia e Cina, da espungere dalle catene del valore occidentali. Ma una tale inversione americana dal liberoscambismo globale al protezionismo selettivo non poteva avvenire in modo indolore. La svolta Usa è infatti la causa profonda dell’esplosione di conflitti militari lungo le linee di faglia del nuovo mondo bipolare, dall’Ucraina alla Palestina al Mar Rosso. La guerra, dunque, non come portato di un “sonno della ragione” ma come esito coerente della stessa “ragione capitalistica”.
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Se le cose stanno così, l’unico modo per scongiurare una escalation militare è costituire un piano di regolazione politica dei grandi squilibri finanziari internazionali sorti negli anni della globalizzazione incontrollata. Ciò implicherebbe un impegno comune di creditori e debitori a imbrigliare le forze della centralizzazione capitalistica, attraverso un sistema simmetrico di controlli sui movimenti di capitali. La premessa necessaria è un passo indietro degli Usa e dei loro alleati rispetto all’attuale protezionismo unilaterale, che mira a dividere il mondo in blocchi. La tesi di Brancaccio è destinata a scontentare i più. Da un lato, gli “atlantisti” grideranno al pericolo di “putinismo” insito in una chiave di lettura che non si limita a condannare la politica di potenza russa o ad additare la follia del suo leader, ma scava sotto la superficie della propaganda.
D’altra parte, qualche marxista “ortodosso” storcerà il naso nel vedere la Russia e ancor più la Cina accostate al termine “imperialismo”, una categoria fino ad oggi riservata alle sole esportazioni di capitali occidentali come strumento di dominio neo-coloniale. In effetti anche io nutro dubbi su questa definizione così estensiva di “imperialismo”. Nondimeno, bisogna ammettere che l’argomentazione proposta da Brancaccio segue un filo logico razionale e rigoroso, che ci costringe a rimettere in discussione le certezze e a ripensare le nostre chiavi analitiche. In quest’epoca disgraziata, Emiliano Brancaccio è uno dei pochi intellettuali in grado di proporre un’analisi materialista rigorosa della realtà, individuarne le leggi di tendenza e mutarle in proposte politiche concrete. In breve, di pensare il nuovo. Ecco perché le riflessioni contenute in questo volume sono preziosissime: solo riconoscendo le cause materiali dei conflitti possiamo provare a costruire un piano di pace, oltre la barbarie della guerra capitalista.