Le battaglie referendarie
Referendum su autonomia differenziata e premierato, cosi la sinistra può mandare a casa la Meloni
Prima il referendum contro la secessione dei ricchi, poi quello sul Jobs Act e infine il premierato. A destra li danno tutti per già persi e per Meloni sarebbe la fine
Politica - di David Romoli
Il futuro politico di Giorgia Meloni, ma anche quello materiale e concreto di molti italiani, sono appesi a una raffica di referendum. Lo scontro politico si articolerà tutto intorno a quelle tre prove, anche se non è neppure detto che le urne si aprano davvero per tutti. Le elezioni europee hanno espresso un verdetto salomonico: la premier e la maggioranza sono state premiate, l’opposizione anche. I ballottaggi a Bari, Firenze e Perugia potrebbero migliorare le quotazioni del Campo Largo. La vittoria del Pd a Bari è certa, quella a Firenze quasi. Conquistarla significherebbe per la destra fare tombola, conservare la storica piazza rossa sarebbe invece per il Pd nell’ordine delle cose. Perugia invece è davvero contesa, i due schieramenti sono quasi in parità. La tripletta galvanizerebbe un’opposizione già molto più vigorosa oggi di quanto non fosse alla vigilia del voto. Merito anche questo di Giorgia Meloni, con l’aiuto di Beppe Grillo.
Il tracollo elettorale dei 5S poteva portare a esiti opposti: innescare una disastrosa guerriglia di Conte contro il partito per forza di cose suo alleato oppure accelerare la marcia verso il Campo Largo. Un po’ le intemerate di Grillo, molto il varo autolesionista dell’autonomia differenziata spingono Conte verso l’opzione unitaria anziché verso il tentativo di logorare il Pd. I pezzi sulla scacchiera sono quindi già quasi tutti disposti. La partita, passando certo anche per le regionali dell’anno prossimo, si giocherà sui referendum. Dopo molte esitazioni inziali il Pd ha deciso: raccoglierà le firme. Ancora non è chiaro chi chiederà la prova referendaria, quasi certamente saranno le Regioni governate dal centrosinistra. Il rischio che la Corte giudichi il referendum non ammissibile perché la legge è collegata al bilancio, che non può essere oggetto di referendum, è reale. I costituzionalisti del centrosinistra si stanno già dando da fare per preparare l’eventuale ricorso. In ogni caso la questione terrà banco per mesi e già questo è per Meloni un grosso handicap.
La premier si è rassegnata a ingoiare una riforma che non ama e che considera molto pericolosa in termini di consenso perché non poteva fare altro: Salvini, a sua volta poco entusiasta di un cavallo di battaglia che rende di nuovo la Lega “partito del nord”, non avrebbe potuto accettare che il patto non fosse onorato. Appunto la Lega del nord non lo avrebbe permesso a lui che non avrebbe potuto permetterlo alla premier. Così una legge che costa molti voti a sud e ne porta pochi, oltre a quelli già certi, nel nord, è stata varata controvoglia. Con una possibile rete di protezione, però: i Lep che dovranno essere definiti in tempi biblici, 24 mesi, e finanziati con fondi che semplicemente non ci sono. Lo stesso prevedibile intervento della Corte costituzionale, che potrebbe bocciare in tutto o in parte la riforma, non arriverà prima di quel termine semplicemente perché finché non si tradurrà in accordi concreti tra Stato e singole regioni la riforma è una scatola vuota.
Meloni è probabilmente la prima ad augurarsi che lo rimanga ma la raccolta di firme e lo stesso scontro sull’ammissibilità del quesito terranno comunque alta tensione e attenzione su un tema che per il governo minaccia di rivelarsi esiziale. Tra i dubbi sul referendum il principale riguardava il rischio forte di non raggiungere il quorum, necessario in quanto non si tratta di riforma costituzionale. Ma se molti milioni di italiani si recheranno alle urne per bocciare la divisione del Paese tra Regioni ricche e povere, quorum o non quorum, il dato non potrà che pesare moltissimo sia sulla popolarità del governo sia sui contenuti delle intese Stato-regioni.
Il secondo referendum è quello della Cgil contro il Jobs Act e per la sicurezza sul lavoro. Anche se la principale riforma nel mirino è stata varata da un governo guidato dall’allora segretario del Pd, la linea sulla quale si muove il governo di destra è quella. Una vittoria del referendum, anche in questo caso tutta legata al quorum, sarebbe un imprevisto in grado di mettere sotto scacco l’intera impostazione del centrodestra. Il referendum sull’autonomia sarà celebrato probabilmente nel 2025, dunque prima di quello sul premierato, mentre probabilmente per quello, già certo, sulla separazione delle carriere bisognerà attendere la prossima legislatura. Da Forza Italia già dicono chiaramente che senza interventi correttivi drastici, che possono passare solo per la definizione dei Lep, la sconfitta nelle urne è già garantita. In realtà buona parte dell’elettorato azzurro e probabilmente, nel sud, anche tricolore e persino leghista voterebbe contro la riforma di Calderoli.
Per la premier sarebbe un colpo duro ma forse meno di un referendum sull’autonomia che mancasse il quorum per un pelo. Perché a quel punto gli elettori sfrutterebbero la prova sul premierato, che non richiede quorum, per far sentire nel modo più doloroso per lei la loro protesta. Quella consultazione è un rischio comunque. La riforma non è claudicante ma zoppa. La premier già sa di doverla rimaneggiare radicalmente nel corso della seconda lettura ma sa anche che la revisione probabilmente non basterà a rendere certa l’approvazione popolare. In queste condizioni trovarsi alle prese con un elettorato motivato non solo dal quesito in sé ma anche dalla volontà di bocciare indirettamente l’autonomia differenziata e le politiche del lavoro sarebbe disastroso. Per questo a Chigi e in FdI è fortissima la tentazione di rinviare il referendum alla prossima legislatura ma sono probabilmente solo fantasie: alle elezioni politiche Giorgia Meloni vuole e deve arrivarci dopo aver conquistato o perso il suo premierato.