"Chiusi dentro"
Giornata mondiale del rifugiato: la morte o il lager, il destino dell’umanità in eccesso
Nella prefazione a Chiusi dentro. I campi di confinamento dell’Europa del XXI secolo, Livio Pepino scrive: “Il concetto chiave per definire le politiche migratorie è racchiuso in un termine, solo all’apparenza opposto a quello che dà il titolo a questo volume: “fuori”. È questo il non luogo dove devono stare i migranti”
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
“C’è un mantra che percorre l’Unione europea, un accordo ferreo che unisce, senza eccezioni, gli Stati che la compongono. Divisi su (quasi) tutto, essi si ritrovano su un punto: limitare al massimo gli ingressi di migranti nel territorio dell’Unione, chiudere e presidiare le frontiere. Alcune eccezioni, come quella dell’accoglienza degli ucraini in fuga dalla guerra, non fanno, con la loro unicità, che confermare la regola. Variano le modalità operative (più o meno stringenti e vessatorie) ma l’assunto non viene messo in dubbio: possono, e ancor più potranno, circolare le merci (salvo qualche balzello imposto dai nazionalisti più impenitenti), ma quel che vale per loro non vale per le persone. Le conseguenze sono drammatiche, come descritto nelle pagine che seguono. A tale descrizione può essere utile far precedere, come inquadramento generale, alcune considerazioni. Il concetto chiave per definire le politiche migratorie è racchiuso in un termine, solo all’apparenza opposto a quello che dà il titolo a questo volume: “fuori”. È questo il non luogo dove devono stare i migranti, ridotti a non persone: un territorio privo (in linea di principio) di riferimenti spaziali, non importa dove collocato, purché lontano e invisibile ai nostri occhi. Ed è un non luogo presidiato da divieti, muri, respingimenti, riammissioni e, a rinforzo, da luoghi -questi sì definiti- di contenimento, collocati oltre i confini (“fuori” appunto) o, comunque, funzionali all’allontanamento. Siamo di fronte al disprezzo, all’annientamento dei corpi dei migranti, da rendere invisibili. Come nelle politiche di colonizzazione, in cui i corpi dei colonizzati erano ridotti a cose, in patria o in un “fuori” dove erano deportati come schiavi. Lo strumento di questo annientamento è, oggi, il confine, fatto per disegnare la differenza tra noi e loro, di cui non ci importa né ci interessa nulla” (introduzione, pag.11)
Con queste riflessioni Livio Pepino, già magistrato, presidente di Magistratura Democratica e ora presidente dell’associazione “Volere la Luna” introduce il saggio Chiusi Dentro. I campi di confinamento dell’Europa del XXI secolo, a cura di Rivolti ai Balcani, 2024, ed. Altreconomia. Frutto di un lavoro interdisciplinare di 21 autori italiani e stranieri il libro è forse la più ampia analisi delle politiche europee di respingimento ed esternalizzazione delle frontiere finora pubblicata in Italia aggiornato a maggio 2024. Dove finiscono le “vite di scarto” (per riprendere la definizione di Zygmunt Bauman) che vengono respinte alle frontiere o che rimangono bloccate nei Paesi terzi, si chiedono gli autori del libro? È un interrogativo che nella letteratura scientifica, nonostante i molti campi coinvolti (politica, antropologia, sociologia, diritto) ha suscitato poco interesse probabilmente perché non è stata ancora compreso l’enorme impatto delle politiche di esternalizzazione attuato dall’Europa e dai suoi Stati membri.
Una parte di questa umanità in eccesso semplicemente muore; si tratta di dati paragonabili in dimensione ai morti di una guerra di ampie proporzioni. Piuttosto esiguo, se non irrilevante, è invece il numero di coloro che dai cosiddetti paesi terzi dove sono bloccati intraprendono la via del ritorno nonostante gli enormi sforzi finanziari dell’Unione Europea nel cercare di realizzare programmi di rientro “volontario” su larga scala attraverso l’operato dalle agenzie internazionali (IOM in particolare). Della reale natura volontaria di molti ritorni v’è da dubitare in quanto “per essere tale deve poter maturare e avvenire in condizioni di libertà di scelta; in assenza di tali condizioni il rientro volontario si trasforma in una forma di deportazione mascherata in quanto la “scelta” viene effettuata a seguito della esposizione a condizioni di vita insopportabili che non hanno lasciato alla persona alcun margine di reale libera scelta” (cap. 2 pag. 38). Sono molte le ragioni per cui il rientro è spesso una scelta impossibile: lo è innanzitutto, sempre, per i rifugiati e per coloro che fuggono da un conflitto armato o rischiano torture e trattamenti inumani e degradanti; lo è però spesso anche per coloro che si sono spostati per ragioni diverse dalla ricerca di protezione a causa delle mutate condizioni nel Paese di origine lasciato magari molti anni prima, dello stigma sociale del migrante che ha fallito o delle condizioni economiche che si sono determinate a causa dei debiti accumulati dal migrante e dalla sua rete famigliare, spesso allargata al proprio clan e gruppo di riferimento.
Oltre coloro che perdono la vita nelle migrazioni o che rientrano nel Paese di origine la condizione di gran lunga maggioritaria è tuttavia rappresentata da coloro che rimangono intrappolati e sospesi per tempi indefiniti in Paesi terzi i quali non possono o non vogliono, per i grandi numeri che si trovano a gestire, o per scelte politiche, assicurare ai migranti né una effettiva protezione giuridica né un percorso di reale integrazione sociale. Anche il Rapporto “Global Trends 2023” dell’UNHCR sul diritto d’asilo presentato come di consueto ogni 20 giugno, giornata mondiale che l’ONU dedica ai rifugiati, oltre a ricordare l’aumento vertiginoso di rifugiati nel mondo nell’ultimo decennio, torna a sottolineare ancora una volta come sono i paesi a basso e medio reddito che ospitano il 75% dei rifugiati del mondo. L’Europa si ostina ad ignorare che in molti Paesi terzi non è possibile assicurare un’effettiva protezione ai rifugiati anche in ragione di un’eccessiva pressione su questi Paesi. E cerca, all’opposto, ogni strada possibile per ammassare in questi Paesi sempre più vite di scarto. È alla condizione umana di milioni di persone che non possono tornare indietro, non possono andare avanti ma neppure possono ricostruirsi una vita dove si trovano, che il saggio Chiusi Dentro rivolge una particolare attenzione scandagliando la nozione di “campo di confinamento” per migranti la cui finalità appare appunto quella di confinare masse consistenti di esseri umani di cui ci si deve occupare al solo fine di impedire, almeno in parte, che essi raggiungano il territorio di quegli Stati che non intendono, sia in termini giuridici che materiali, farsene carico. Il saggio evita con rigore ogni indebito paragone con altre tipologie di campi che hanno tragicamente segnato la storia del ‘900 senza però sottovalutare la gravità dei fatti che connotano l’attuale contesto storico e ricordando che “nella misura in cui il campo di confinamento ha come primaria finalità la gestione autoritaria di masse umane considerate in eccesso, può dunque anch’esso, con le sue peculiarità, essere considerato un’istituzione concentrazionaria” (cap. 2 pag.43)
Il lettore non dovrà infine stupirsi di vedere trattato nel saggio anche il ruolo di Paesi che non sono affatto terzi bensì membri dell’Unione Europa (come Grecia, Polonia, Italia). Ciò in quanto l’avanzare sempre più veloce del processo di erosione del diritto d’asilo ha reso possibile in una certa misura l’estensione del modello del campo di confinamento anche all’interno della stessa Unione europea, pur con limiti e particolarità conseguenti a un quadro di garanzie giuridiche ancora esistenti (ma per quanto?). Acutamente Livio Pepino nella sua introduzione scrive che “lo stesso termine “campo”, che definisce genericamente i centri di detenzione per migranti, si ricollega alle pratiche coloniali di confinamento e di isolamento, per imprigionare disciplinare i corpi dei colonizzati ed escluderli dall’ordine dei colonizzatori. L’umiliazione e l’inferiorizzazione si affiancano-allora addirittura prevalendo- allo scopo di tenere materialmente “fuori” dai confini chi cerca di attraversarli. Lo si vede anche nelle caratteristiche dei “centri-campi” gemelli previsti, nel nostro Paese, per il rimpatrio, in cui il limite temporale di permanenza, dilatato fino a 18 mesi, è funzionale a trattenere ancor più che a respingere, posto che la quota di respinti, all’esito del trattenimento, è inferiore al 50% degli ospiti. (….) Anche il trattenimento generalizzato dei migranti, come le politiche di stop, serve a ridisegnare il sistema sociale e politico delle democrazie occidentali in crisi. Non solo si introduce il doppio livello di cittadinanza ma, attraverso la reclusione senza reato (categoria comprensiva del trattenimento coatto e della detenzione amministrativa), si negano le conquiste fondamentali della modernità, a cominciare dall’habeas corpus”. (pag.16)