Il nuovo Patto europeo
Asilo negato, profughi in gabbia: ma gli xenofobi d’Europa vogliono di più
Una missiva, all’indomani del sì al nuovo Patto europeo, in cui si indica come modello l’accordo Ue-Turchia ma anche il protocollo Italia-Albania. La richiesta sembra essere: fate ciò che volete, ma in Europa i migranti non devono entrare
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
Il 15 maggio 2024 ben 14 Stati membri dell’UE (Austria, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca e Romania), tutti caratterizzati da politiche di netta avversione verso le migrazioni, hanno inviato una lettera congiunta alla Commissione Europea per chiedere nuove politiche sull’immigrazione e l’asilo.
Può apparire paradossale che ciò avvenga proprio il giorno dopo l’approvazione definitiva, lo scorso 14 maggio, da parte del Consiglio Europeo dei testi di riforma del sistema europeo di asilo collegati al cosiddetto Patto europeo su immigrazione e asilo, approvazione avvenuta a maggioranza qualificata con il voto favorevole di tutti i firmatari della lettera di cui qui trattiamo, meno due, Ungheria e Polonia.
I governi firmatari della lettera (che era stata evidentemente già concordata prima dell’approvazione delle norme legate al Patto) manifestano insoddisfazione per l’attuale quadro legislativo appena votato e chiedono nuove riforme ancor più draconiane smentendo in tal modo la banale giustificazione data da quelle forze politiche che nel Parlamento UE avevano ad aprile dato voto favorevole all’approvazione dei testi di riforma connessi al Patto con la motivazione che si trattasse di una triste ma necessaria scelta per frenare nuove involuzioni.
Con immediatezza è arrivata la conferma che non è così dal momento che le politiche di ossessiva chiusura verso il diritto d’asilo e verso la migrazione in generale non arrivano mai a un punto di soddisfazione; esse vivono solo dentro una incessante auto alimentarsi.
Veniamo dunque al testo della lettera nella quale si invoca fin dalle prime righe la necessità di un sistema di asilo “a livello mondiale volto a prevenire ed affrontare la migrazione irregolare alla radice e lungo le rotte migratorie, fornendo nel contempo una protezione e un riparo adeguati a chi ne ha bisogno e favorendo il rimpatrio e la reintegrazione”.
Emerge da subito l’ambiguità e la voluta confusione concettuale del testo; il diritto d’asilo (teoricamente da rispettare) e la migrazione irregolare (da contrastare e prevenire) sono sovrapposti e mescolati in modo da creare un insieme indistinto.
L’obiettivo reale da perseguire emerge nella nota poche righe dopo, ed è quello di spostare “la nostra attenzione dalla gestione della migrazione irregolare in Europa al sostegno ai rifugiati e alle comunità ospitanti nelle regioni di origine”. I rifugiati quindi vanno tenuti fuori dall’Europa, confinati in paesi terzi ai quali possiamo al massimo fornire risorse. Ma non da noi.
I partenariati con i paesi terzi, più volte invocati, sono essenziali “per offrire ai migranti un’alternativa a mettere a rischio la propria vita in viaggi pericolosi. Dovrebbero essere esplorate diverse idee per ottimizzare tali partenariati, compresi i modelli ispirati alla dichiarazione UE-Turchia (e al meccanismo 1:1) e al memorandum d’intesa UE-Tunisia”.
Senza imbarazzo alcuno il testo cita come modello da copiare quello che è stato il più spregiudicato (ma anche forse riuscito) esperimento di esternalizzazione del diritto d’asilo (e di aggiramento delle regole contenute nel Trattato sul funzionamento dell’UE in materia di accordi tra la UE e i Paesi terzi), ovvero la dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo 2016 con la quale milioni di rifugiati sono stati forzatamente confinati in Turchia senza alcuna protezione.
Stracciando le solenni promesse contenute in quella dichiarazione, nessun piano di ricollocamento dei rifugiati siriani è stato mai realizzato: al 4 aprile 2024, otto anni dopo il 2016, al posto della necessità di fornire reinsediamento a non meno di un milione e mezzo di persone, ne sono state reinsediate nell’UE 46.388, di cui 399 in Italia (dati Commissione Europea).
Quale sia invece l’esempio che si possa trarre dall’accordo con la Tunisia, non è dato sapere, a meno che non si considerino tale le violenze continue verso chi è in fuga e le deportazioni e l’abbandono dei rifugiati nel deserto al confine con l’Algeria.
Gli aspetti sconcertanti della missiva, seppure così breve (solo due paginette) non si limitano a quanto sopra; poco dopo il riferimento a Turchia e Tunisia il testo si lancia nella proposta di creare dei “meccanismi di transito” che avrebbero lo scopo di “intercettare o in caso di pericolo, salvare i migranti in alto mare e portarli in un luogo di sicurezza predeterminato in un Paese partner al di fuori dell’UE, dove potrebbero essere trovate soluzioni durature per questi migranti, anche sulla base di modelli come il Protocollo Italia-Albania”.
Nella terminologia in uso nel diritto internazionale per “soluzioni durature” si intendono i programmi per la protezione e l’inserimento sociale dei rifugiati in un dato Paese. Si tratterebbe dunque dell’Albania.
Il protocollo Italia-Albania, pur con le sue macroscopiche problematiche giuridiche, prevede però che i richiedenti asilo trasportati in Albania rimangano sotto la giurisdizione italiana e che in caso di accoglimento della domanda di asilo i beneficiari vengano in Italia, paese che ha riconosciuto loro la protezione, e non in Albania.
Come è dunque possibile che nella lettera firmata dall’Italia, ci sia un così macroscopico errore? Il governo italiano si è lasciato scappare che inconsciamente vorrebbe fare proprio ciò che con il protocollo con Albania non può fare, ovvero consegnare i rifugiati a quel paese, come il Regno Unito intende caparbiamente fare con il Ruanda?
L’intenzione di usare paesi terzi per attuarvi le più diverse procedure emerge dall’ulteriore proposta contenuta nella lettera, l’unica che ha avuto un certo riscontro mediatico, che chiede di istituire “degli hub di rimpatrio, dove i rimpatriati potrebbero essere trasferiti in attesa del loro allontanamento definitivo”.
Si tratta di una previsione che è in contrasto con il diritto dell’Unione (e i firmatari ne sono consapevoli, tanto che chiedono appunto la revisione della direttiva rimpatri).
È necessario chiedersi quale sia la finalità di un tale obiettivo; se infatti un cittadino straniero è soggetto ad una detenzione di tipo amministrativo attuata per eseguire coattivamente il suo allontanamento perché mai tale detenzione (che non è una sanzione penale e deve essere la più breve possibile perché applicata al solo scopo di eseguire l’allontanamento) iniziata in Europa può proseguire in un paese terzo?
L’unica spiegazione, per quanto terribile, di una proposta che altrimenti andrebbe considerata illogica per logistica e costi, è che essa svela la volontà di creare una sorta di colonie penali di fatto ed extraterritoriali, poste lontano dalla vista di soggetti indiscreti e da ogni garanzia e tutela verso forme di violenza e degrado.
Un’ultima attenzione va dedicata ad un aspetto della lettera che, a quanto mi sembra, non è stato oggetto di commento pubblico, ma che è di primaria importanza, ed anzi sarà il primo concreto banco di prova dell’applicazione del nuovo Regolamento sulle procedure in materia di asilo; esso riguarda la concreta applicazione della problematica nozione di “paese terzo sicuro” dove inviare coattivamente un richiedente asilo senza neppure avviare l’esame di merito della sua domanda di asilo, che va dunque considerata inammissibile, nel caso tale paese terzo offra una “protezione effettiva” (art. 57 del nuovo Reg. procedure) ed il richiedente “abbia con il paese terzo in questione un legame in virtù del quale sarebbe ragionevole che vi si recasse”.
Non sfuggirà, anche al lettore privo di nozioni tecniche, la assoluta vaghezza della nozione sopra riportata. La lettera congiunta chiede alla Commissione di “rivalutare il quadro giuridico, ove necessario, compresi i criteri di collegamento durante la prevista revisione del concetto di paese sicuro nel 2025”.
L’obiettivo cui tali paesi vogliono arrivare è ben noto, ed è quello di considerare sussistente il legame tra il richiedente e il paese terzo qualora vi sia un qualsiasi tipo di collegamento (non a caso viene usate questa parola) tra la persona e il paese nel quale si vuole rinviarlo, compreso il solo fatto di averlo attraversato, di avervi usufruito di aiuti umanitari, si esservi stato ospitato, magari forzatamente, in una struttura di qualunque tipo.
In tal modo, se con gli hub per i rimpatri verrebbero istituite, come si è detto, delle colonie penali extraterritoriali, con i nuovi criteri per stabilire il legame/collegamento tra i rifugiati e i paesi terzi verrebbe costruita una sorta di ideale cintura di protezione attorno all’UE fatta di Paesi da pagare profumatamente affinché non solo più si tengano i rifugiati che arrivano sul loro territorio (la politica dell’esternalizzazione) ma si anche riprendano coloro che sono riusciti ad arrivare nell’UE.
È agevole ipotizzare quali saranno: i paesi non UE dei Balcani occidentali facili da ricattare, la Tunisia, la Turchia, l’Egitto ed altri Paesi posti in posizione strategica lungo le rotte migratorie. In un tale scenario che rimarrebbe in Europa del diritto d’asilo?
Nel diritto internazionale sui rifugiati non esiste un diritto a scegliersi liberamente il paese di asilo; tuttavia se venisse generalmente impedita la possibilità stessa di accesso dei rifugiati al territorio europeo con la motivazione dell’esistenza di asserite (ma spesso non reali) protezioni cui si può accedere altrove, si potrebbe ancora ritenere che sia effettivo, al di là degli aspetti formali, il rispetto del diritto d’asilo per come esso si è evoluto nell’UE negli ultimi decenni? Chi scrive ha sul punto dei forti dubbi.