Il nuovo format della premier
Il complesso di inferiorità che la destra non sa superare
Nell’ossessione per i salotti di sinistra che agita la premier c’è tutto lo sdegno malriposto della sua parte politica che si è sentita emarginata e che preferisce il vittimismo al merito e allo studio
Editoriali - di Filippo La Porta
Nella sua effervescente TeleMeloni, in queste pagine commentata argutamente da quel sottilissimo semiologo che è Fulvio Abbate (cui ricordo solo che il gioco antifrastico fu attuato prima ancora da Almirante, con il suo Autobiografia di un fucilatore), Giorgia Meloni appare ossessionata da un fantasma: i salotti radical chic.
Ora, questi salotti palesemente non esistono più, sono un anacronismo, almeno quanto l’ “antifascismo” lo è per lei (la stessa espressione radical chic fu coniata nel 1970 dallo scrittore Tom Wolfe).
Il fenomeno più eclatante del nostro tempo è piuttosto lo snobismo di massa, il “diritto al caviale”! Insomma, bisogna inventare nuove categorie e chiavi interpretative.
Come se i suoi spin doctor e strateghi della comunicazione le avessero fatto vedere il film Ferie di agosto (1996) di Virzì, e poi le avessero impedito l’accesso a qualsiasi sala cinematografica.
Anche limitandosi al cinema, basterebbe che vedesse, che so, Favolacce dei fratelli D’Innocenzo (il film più cupamente “pasoliniano” che io abbia mai visto sul popolo omologato delle periferie) o Palazzina Laf di Riondino (sugli altiforni dell’Ilva e il mobbing aziendale), per avere una immagine appena più verosimile, e forse anche più drammatica, della società italiana.
Lei dice perentoriamente di venire dal “popolo”, di cui si considera l’unica portavoce legittima. Dunque non è neanche più interessata ad ascoltarlo, il popolo: a questo punto basta che ascolti se stessa!
Basta autoauscultarsi per prendere le sue decisioni. E invece di “popoli” ce ne sono innumerevoli, dentro la Babele della globalizzazione, ciascuno con la propria subcultura, con i propri diritti da reclamare, con la propria ingovernabile soggettività. Alcuni sembrano più barbarici, turbolenti, altri un poco più maturi e riflessivi.
Anche storicamente si sono succeduti popoli diversi, dalla folla che scelse di condannare Gesù e salvare Barabba alla folla che a piazzale Loreto volle sputare sui cadaveri del Duce e della Petacci (nel luogo dove un anno prima erano stati trucidati dei partigiani), e fino al popolo indubbiamente evoluto che nel nostro paese accolse il divorzio prima e l’aborto poi.
Forse ciascuno di noi dentro la modernità liquida appartiene simultaneamente a più popoli. Li attraversa tutti. Si potrebbe concludere che compito della politica è armonizzare questi diversi “popoli”, trovare un punto di mediazione e di sintesi civile.
Per capire il mondo occorre onestà e immaginazione sociologica e non mitologie caricaturali da commedia all’italiana d’antan. Chi straparla di salotti radical chic, e li vede paranoicamente dappertutto, tradisce – secondo ogni manuale di psicologia – la umiliazione di esserne escluso.
E veniamo al secondo punto.
L’arroganza, la inclinazione a sbeffeggiare, la spavalderia gratuita, non sono affatto “popolari”. A me non pare siano cose “popolari”. Al Testaccio e alla Garbatella (abito lì vicino) la gente solitamente non è scomposta né tracotante. Tutt’altro.
Anzi vi abita un popolo che coltiva, finché può, le antiche virtù del decoro e della discrezione. Una delle frasi che in questi giorni ho sentito spesso da parte degli esponenti di destra è “Non vogliono Dante? beh, se ne tornino al paese loro!”; sostituite a Dante il crocifisso, il presepe o quello che volete.
Una frase che rivela un fondo melmoso di rancore, sfrontatezza e rabbia repressa. Ecco, duole dirlo perché sembrerebbe un teorema tipico da salotto radical chic (qualunque cosa significhi questa espressione), ma questa arroganza è direttamente proporzionale alla insicurezza culturale, a un complesso di inferiorità quasi inestirpabile.
Non ho letto il pamphlet di Alessandro Giuli su Gramsci e l’egemonia. Se ne dice un gran bene, e probabilmente a ragione: spiazzante, originale…
Confesso un lieve pregiudizio: se mio figlio mi chiede un saggio su Gramsci non gli metto in mano proprio Giuli, autore peraltro di utili volumi sulla identità dei postfascisti e su Cibele romana. Magari in seconda battuta.
E poi: non si tratta di un continuo, ansioso ricorrere a terminologie e concetti che sono appartenuti alla sinistra, per dimostrare che siamo divenuti moderni?
Ora, in una arguta recensione al pamphlet l’ottimo giornalista del Giornale Alessandro Gnocchi si rivolgeva alla destra con piglio severo, intimandole “Meno nomine, più bibliografie”.
La questione è tutta qui. L’egemonia bisogna pur meritarsela, con lo studio e l’impegno. Di ciò si dovrebbe almeno accennare, nella antifrastica TeleMeloni.