La proposta

Carceri dei ragazzi sono barbarie, ecco perché vanno chiuse

Ipm sempre più pieni a causa del dl Caivano. Diventano luoghi in cui concentrare sofferenza e difficoltà di giovani cresciuti in contesti di marginalità sociale. Vanno ingaggiati in forme radicalmente alternative alla privazione della libertà

Editoriali - di Massimiliano Smeriglio

29 Maggio 2024 alle 15:00

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Carceri dei ragazzi sono barbarie, ecco perché vanno chiuse

Perché no, perché non dovremmo squarciare il velo di ipocrisia che avvolge il dibattito sul sistema detentivo dei minori proponendo la chiusura degli istituti penitenziari minorili. Soprattutto dopo i fatti di Milano.

Il sistema di attuazione della pena in un paese democratico dovrebbe essere il termometro attraverso cui si misurano i diritti dei cittadini. Perché coloro che sono privati della libertà personale sono cittadini la cui vita si trova interamente nelle mani dello Stato.

Lo Stato italiano, più volte, ha dimostrato di non essere in grado di tutelare i diritti minimi, e, talvolta, addirittura l’incolumità, degli uomini e delle donne reclusi dentro gli istituti penitenziari.

Gli oltre trenta suicidi avvenuti dietro le sbarre solo dall’inizio del 2024 dovrebbero aprirci gli occhi su un mondo che volontariamente abbiamo allontanato dal dibattito pubblico. Il carcere come buco nero, che interessa a pochi.

Accettiamo che nel buio il carcere diventi luogo di sofferenza e privazioni che vanno ben oltre la pena della privazione della libertà personale. Una sorta di pena aggiuntiva.

Se non siamo in grado di affrontare il tema di come la pena debba essere strumento di risocializzazione delle persone detenute, allora almeno iniziamo dal salvare i ragazzi.

I dati che emergono dall’ultimo rapporto di Antigone sulle presenze di minori negli istituti penitenziari devono spingere ad un dibattito serio sul senso di queste strutture: abbiamo veramente bisogno degli Istituti penitenziari minorili?

Il Decreto Caivano, nel pieno tracciato di un abuso del diritto penale come strumento emergenziale e politico per gestire e normare i fenomeni sociali, ha generato un meccanismo di progressivo aumento delle presenze di giovanissimi dietro le sbarre.

Approvato sull’onda emotiva dei terribili fatti dello scorso anno, ha però incentivato e favorito la detenzione come misura cautelare anche nel caso di reati di lieve entità imputati a minorenni. In questo modo, il rischio concreto è quello di replicare il sovraffollamento che aggrava le strutture penitenziarie per adulti.

Come se non bastasse, ad oggi la popolazione giovane reclusa è in maggioranza composta da persone che non sono state condannate in via definitiva, ma che subiscono la privazione della libertà personale come misura cautelare, spesso per questioni relative a piccolo spaccio e consumo di sostanze stupefacenti.

Giovani che difficilmente vengono instradati verso percorsi di terapia e riabilitazione verso le dipendenze. All’inizio del 2024 erano circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane, un dato in crescita rispetto agli ultimi dieci anni.

È solo uno degli interessanti dati raccolti nel recente rapporto di Antigone, pubblicato proprio riguardo le condizioni dei 17 Istituti Penitenziari Minorili presenti sul territorio italiano (tendenzialmente al Sud, con la Sicilia che ne conta ben 4).

I reati commessi sono in gran parte contro il patrimonio, solo il 22% riguarda reati contro la persona. Gli ingressi in IPM sono stati 835 nel 2021, a fronte dei 1143 del 2023. I ragazzi in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima.

Parliamo di ragazze e ragazzi in gran parte minorenni, che sono quasi il 60% dei presenti, contro un 40% di presenze di giovani adulti, mentre prima del Decreto Caivano la situazione era esattamente invertita. Pesa, infatti, su questo la possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti.

Un dato che salta all’occhio è quello relativo alla composizione, che vede aumentare la percentuale dei reclusi stranieri all’aumentare della restrittività del dispositivo di pena. In questo senso, la messa alla prova e la permanenza nelle comunità sono misure maggiormente utilizzate per i ragazzi italiani.

Le torture e le vessazioni emerse, poi, dal caso gravissimo del Beccaria di Milano aprono gli occhi anche su un altro spaccato: la violenza insopportabile e strutturale cui questi ragazzi sono sottoposti quotidianamente.

Così gli Istituti Penitenziari Minorili diventano luoghi in cui concentrare la sofferenza e le difficoltà di giovani cresciuti in contesti di marginalità sociale.

Lo Stato assume la violenza e la repressione come unica forma di relazione, evitando invece di affrontare il problema alla radice. La redistribuzione di opportunità che permettano a tutte e tutti i ragazzi di crescere e sviluppare a pieno la propria personalità. Un impegno tracciato dalla nostra stessa Carta costituzionale.

Repressione, violenza e marginalizzazione non possono che innescare spirali che inducono al crimine e alla recidiva. Un giovane che finisce nel sistema penitenziario è un cittadino in formazione nelle mani dello Stato: per questo dovrebbe essere responsabilità e compito di una democrazia matura quello di assumerne la formazione scolastica e professionale, la crescita all’interno di comunità che possano costituire opportunità di scelta che spesso molti ragazzi non hanno.

In questo senso, l’Europa potrebbe fare molto. Immaginiamo programmi per l’apprendimento di lingue e culture degli altri paesi, per lo scambio culturale e, perché no, opportunità di mobilità interna all’Unione non solo per le eccellenze ma anche per gli ultimi.

Allargando Erasmus anche a chi è espulso dal sistema formativo. Uscire dalla marginalità e costruire nuova cittadinanza attraverso lo scambio, la cultura, la formazione professionale, la creatività.

Oggi, mentre lo Stato è assente o violento, questo compito è svolto nel silenzio da alcune realtà. Mi viene in mente la comunità Kayros, quella di don Claudio Burgio, che accoglie in comunità residenziali minori adolescenti e giovani maggiorenni con procedimenti penali, provvedimenti amministrativi e civili.

Nelle stanze di quella comunità si è formata un’intera generazione di nuovi artisti, italiani di seconda generazione, che stanno conquistando il mercato musicale europeo.

Ragazzi che riescono ad uscire dalla marginalità sociale grazie alla musica, all’arte, nonostante lo Stato continui a mettergli i bastoni tra le ruote. Il caso di Zakaria Mouhib, in arte Baby Gang, in questo è emblematico.

Secondo quanto raccontato da Le Iene, il ragazzo sarebbe stato nuovamente recluso per aver sponsorizzato l’uscita del suo nuovo disco su Instagram: un altro arresto per il ragazzo, che a soli 22 anni oggi rischia di passare l’ennesimo compleanno con i compagni di cella.

Baby Gang a marzo è stato il rapper italiano con più ascolti su Spotify. Dal carcere di Busto Arsizio, dov’è attualmente recluso, lancia un grido di allarme verso il mondo di fuori e inizia uno sciopero della fame con l’obiettivo di accendere una luce sulle condizioni degli istituti penitenziari.

“A spaventarmi non è il carcere, è il sistema, è l’idea di essere marchiato a vita, la sensazione che vogliono impedirmi di splendere. Io non sono un pericolo per la società, ma ho sempre più paura che questa società sia un pericolo per me”.

Raccogliamo la voce di questi ragazzi e accendiamo la luce dietro le sbarre. Il primo passo dovrebbe essere quello di ingaggiarli in forme radicalmente alternative alla privazione della libertà. Il secondo chiudere la vergogna dei carceri per ragazzi poco più che bambini.

29 Maggio 2024

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