La svolta su Gaza
Il governo scarica Israele, “Contrari all’invasione di Rafah”
Il ministro Crosetto rilancia: “Tel-Aviv doveva fermarsi ma non ci ha ascoltato”. E Tajani lo segue a ruota: “Contrari all’invasione di Rafah”
Politica - di David Romoli
Un po’ è certamente l’imminente apertura delle urne: la maggioranza degli italiani è contraria all’escalation dell’impegno Nato in Ucraina e decisamente ostile all’operazione di Israele a Gaza.
Un po’, forse anzi molto, è che gli umori del governo sulle guerra in corso non sono sempre quelli ostentati in pubblico o nei consessi internazionali. Non del tutto almeno.
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Di fatto, comunque, la presa di distanza inizia a essere palese. La premier personalmente non si espone. Sull’uscita di Stoltenberg a favore del permettere a Kiev di “difendersi senza avere le mani legate”, cioè di colpire il territorio russo, non è andata oltre un invito “a essere prudenti”.
Su Gaza non si scopre. Lo fa per lei, pur senza averla avvertita in precedenza, il ministro Crosetto, che in quanto titolare della Difesa è qualcosa in più di semplice dirigente pur importante del primo partito di maggioranza.
Crosetto, stavolta, non la manda a dire: “Israele sta seminando un odio che coinvolgerà figli e nipoti. Tutti gli Stati sono concordi sul fatto che Israele a Rafah dovesse fermarsi. Non ci ha ascoltato e ora guardiamo con disperazione la situazione”. Il ministro parlava in tv.
Più tardi, viste le reazioni alle sue parole in realtà poco equivocabili, precisa sui social: “Non sto attaccando Israele di cui sono sempre stato amico o la sua legittima reazione contro il feroce attacco di Hamas. Chiedo ai media maggior contestualizzazione”.
Sono parole dovute, pena il possibile incidente internazionale ma la critica a una strategia israeliana che non ha saputo “discernere tra la popolazione palestinese e Hamas” di poco prima era chiarissima.
Del resto, con maggior equilibrismo diplomatico, aveva preso le distanze da Bibi e dal suo modus operandi anche il ministro degli Esteri Tajani, a Bruxelles per il consiglio degli Affari europei.
Per Tajani i razzi tirati da Hamas su Tel Aviv sono una trappola, nella quale però “Israele è caduta”. Tajani non fa nessunissimo sconto ad Hamas che “non sta dalla parte del popolo palestinese ma usa il popolo palestinese come strumento per i suoi disegni”.
Ma anche lui, sia pure in modo molto meno ruvido, sottolinea così che tra i terroristi e la popolazione doveva essere tracciata una linea di demarcazione che Netanyahu ha invece ignorato. E in ogni caso su Rafah il prudente Tajani è invece secco: “L’Italia è contraria”.
Se la svolta del governo si tradurrà in riconoscimento dello Stato palestinese, ipotesi assai improbabile, lo si capirà quando verrà discussa la mozione 5S che chiede il riconoscimento, sulle orme di Spagna, Irlanda e Norvegia.
Conte, che ha presentato la mozione, vorrebbe che fosse messa in calendario subito, prima delle europee e su questo i 5S insisteranno oggi in conferenza dei capigruppo a Montecitorio. Con poche possibilità di spuntarla.
Il fronte ucraino è molto più delicato, per l’Italia, di quello mediorientale. Lo schieramento senza alcuna riserva con l’atlantismo più radicale è la chiave che ha aperto a Giorgia Meloni i salotti buoni di Bruxelles.
Deve a quello schieramento buona parte della fiducia di cui oggi gode nell’Unione. Ma di fronte alla pressione di Stoltenberg, proseguita anche ieri, il governo italiano si smarca.
Stoltenberg insiste, sia pure abbassando di qualche decibel i toni ma senza variare la sostanza. Kiev non riesce a difendersi perché “ha le mani legate” dal divieto di colpire il territorio russo.
Il diritto internazionale all’autodifesa consente di contrattaccare il Paese aggressore. Il segretario generale della Nato esclude un impegno diretto su quel fronte ma quel che fa capire tra le righe è che il prezzo per evitare quell’intervento potrebbe essere “slegare le mani” all’Ucraina.
Lo stesso Crosetto, già nel weekend, aveva replicato a muso duro: “Non esiste che siano il segretario della Nato o una nazione a decidere la linea per tutti”.
Ieri Tajani ha suonato lo stesso motivo: “Stoltenberg doveva essere più prudente. Non tocca a lui prendere queste decisioni. Gli ucraini sanno che gli strumenti militari ricevuti da noi non potranno essere usati fuori dall’Ucraina”.
Il segretario però risponde subito, sia pure in forma implicita: “Sta ai singoli alleati, non alla Nato, decidere sulle restrizioni sull’uso delle armi”. È una formula rassicurante solo a metà.
Significa che l’Italia non sarà costretta dai vincoli dell’Alleanza atlantica a fare passi che non condivide che il governo pagherebbe cari in termini di popolarità, consenso e soprattutto compattezza della maggioranza.
Un Salvini più che mai da campagna elettorale si colloca infatti, quanto a delicatezza diplomatica, all’opposto esatto del collega vicepremier Tajani.
Domenica aveva chiesto a Stoltenberg di rettificare o dimettersi, ipotesi rilanciata dalla Lega tramite un duro come Borghi. Ieri ha commentato l’uscita del segretario Nato sullo stesso tono: “Uomo pericoloso. Chi può farlo lo fermi”.
La precisazione di Stoltenberg, però, significa anche che se singoli Stati, come il Regno Unito o la Polonia o gli stessi Usa decideranno nel vertice Nato di luglio a Washington di “slegare le mani a Kiev” né l’Italia, né la Germania, contrarissima alla linea Stoltenberg, né l’intera Unione avranno molta voce in capitolo.
Ma l’impennata inevitabile della tensione internazionale non risparmierebbe nessuno e tanto meno un governo costretto a difendere la linea iperatlantista a cui deve moltissimo come quello italiano.