La rubrica
Valditara e il ’68: l’ossessione del ministro per la contestazione, poche idee ma ben confuse
La questione dell’autorità sembra il chiodo fisso di Valditara. Parlamentare di lungo corso, prima militante di An e poi della Lega, è da supporre che per lui “Dio, Patria, Famiglia” costituiscano l’autorità triadica originaria.
Editoriali - di Mario Capanna
L’acritico rispetto per l’autorità è il più grande nemico della verità.
(A. Einstein)
“Dobbiamo ripristinare il principio di autorità (…) e noi dobbiamo sconfiggere quella cultura sessantottina che purtroppo esiste nel nostro Paese”: così irruppe l’altro giorno Giuseppe Valditara, intervenendo al congresso nazionale di DirigentiScuola.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito (!?) è ossessionato dal Sessantotto. Come se un tarlo lo rodesse di continuo. Infatti aveva già sentenziato: “Basta sessantottini, nella scuola tornino i doveri” (25 aprile 2024); “vedo le radici lontane del ’68 che hanno messo in discussione il principio di autorità in generale” (17 luglio 2023); “l’eredità del ’68 è la negazione dell’autorità, l’aver messo sullo stesso piano il messaggio di chi sta in cattedra, per insegnare, e le opinioni di chi sta sui banchi, per apprendere” (13 dicembre 2022).
La fobia del Sessantotto attraversa il tempo, e il ministro ha illustri predecessori. Nicolas Sarkozy, in piena campagna per la conquista dell’Eliseo, mollò i freni: “Il Sessantotto ha imposto il relativismo intellettuale e morale, ha introdotto il cinismo nella società, ha abbassato il livello morale e politico” (30 aprile 2007). Le grandi lotte di allora peggio di Attila…
Lo seguì a ruota l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, noto “riformista”: “Una delle ragioni per le quali gli studenti studiano male è perché alcuni insegnanti sono usciti da anni in cui le discussioni sul Vietnam avevano preso il posto dell’imparare” (23 maggio 2007). Ovvero: il “dottor sottile” divenuto così… sottile, da rendersi evanescente.
Anche Papa Benedetto XVI volle dire la sua, parlando di “cesura del Sessantotto”, vedendovi “l’inizio o l’esplosione – oserei dire – della grande crisi culturale dell’Occidente” (25 luglio 2007).
Almeno Joseph Ratzinger, sottolineando la cesura del Sessantotto, ne riconosce la grandezza. Al contrario degli altri, egli parlava per esperienza diretta, date le contestazioni da cui fu investito nel 1968 quando insegnava all’Università di Tubinga, e per essersi mosso poi in prima fila nel reprimere la teologia della liberazione in America latina (lui, che pure veniva catalogato fra i teologi “progressisti”).
Il fatto è chiaro: anche dopo più di mezzo secolo, il Sessantotto fa paura ai conservatori e ai reazionari di ogni risma. C’è da capirli, poveretti. Perché, come disse quello spirito profetico di Ernesto Balducci, “è da allora che il potere va in giro nudo”. Averlo spogliato di ogni sua aureola autogiustificante è uno dei meriti indelebili del Sessantotto.
Non la menerò, qui, sulle conquiste di allora – e dopo – nel campo dei diritti e della nuova visione del mondo, per cui, da quel momento, lo sguardo sulle cose – tutte le cose – non è più uguale a prima, nonostante la sistematica repressione scatenataci contro ovunque. In merito bastano, e avanzano, i miei libri.
Sottolineo solo che il termine contestazione viene da contestatio, che significa “affermazione”, e rinvia al verbo contestor (“chiamo in testimonianza”).
Ha un’incredibile ricchezza di significati: contiene testis (“testimone”), rimanda a contineo (“contengo”, “racchiudo”) e a contexo (“tessere, intrecciare insieme”).
Sicché, per farla corta: ci chiamammo in testimonianza, simultaneamente nei continenti, a milioni – studenti, giovani, lavoratori, intellettuali – acquisendo ognuno la padronanza di sé (consapevolezza meravigliosa) e indicando un nuovo mondo possibile, al di là della guerra, dello sfruttamento del profitto capitalistico, per la giustizia e la fratellanza tra le persone e i popoli.
È, questa, una delle ragioni profonde per cui la rivoluzione culturale del Sessantotto è stata l’unica rivoluzione non consumata. Vale a dire: non finita stritolata nelle dinamiche simmetriche a quelle che intendeva combattere. Come accadde, per esempio, alla rivoluzione francese, a quella bolscevica ecc.
La questione dell’autorità sembra il chiodo fisso di Valditara. Parlamentare di lungo corso, prima militante di An e poi della Lega, è da supporre che per lui “Dio, Patria, Famiglia” costituiscano l’autorità triadica originaria.
Sembra non riuscire a capire che l’autorità ha senso, e merita rispetto, se viene usata per l’emancipazione di coloro verso cui si esercita. Se non svolge questa funzione, è autoritarismo, e va contestata.
Prendiamo il caso del rapporto insegnante-studente: l’autorevolezza del primo dipende dalla sua capacità di educare, vale a dire di e-ducere , “condurre fuori”, “estrarre” le potenzialità del discente.
Per cui è buon docente chi impara mentre insegna, ed è buon studente chi insegna mentre impara. Esattamente il contrario dell’ossessione di Valditara, secondo cui uno è… autorità per il solo fatto che siede in cattedra.
Lo so, è duro da accettare e, soprattutto, da praticare. Ma: o ci si arriva, oppure ogni predica sull’autorità lascia semplicemente il tempo che trova. E fa ridere, per il suo semplicismo conservatore.
Sul tema “Il Sessantotto, la scuola, l’autorità” invito volentieri Valditara a un confronto pubblico diretto. Scelga pure lui il luogo e la forma. Non è una sfida, vuole essere un dialogo.
Spero che non si comporti come Indro Montanelli, che cannoneggiò ripetutamente il Sessantotto, da dietro la comoda trincea dei suoi giornali, e, invitato al confronto, non trovò di meglio che sottrarsi. A proposito di coraggio… delle proprie idee.