Parola allo scrittore

Festa del Lavoro, il ricordo di Erri De Luca: “Il fracasso della fabbrica, poi il silenzio e i cortei”

Lo scrittore-operaio: "Viviamo in una società che esibisce la disuguaglianza come una medaglia. Io sto ai piani bassi: perciò ho fiducia nell’umanità"

Interviste - di Graziella Balestrieri

1 Maggio 2024 alle 11:30 - Ultimo agg. 1 Maggio 2024 alle 16:07

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Festa del Lavoro, il ricordo di Erri De Luca: “Il fracasso della fabbrica, poi il silenzio e i cortei”

“Sono entrato nella grande officina di fabbrica a 28 anni. Non avevo niente che mi poteva stupire, fuori e dentro di me. Me l’aspettavo l’impatto del chiasso dei macchinari e delle lavorazioni. Però starci le otto ore, aggiungendo al frastuono quello che producevo anche io con due frese, un tornio e una pressa, era una novità acustica, difficile da farci l’abitudine.

Gli operai tra loro gridavano anche da vicino. Era la fine degli anni ’70, di un decennio di urti tra salariati e proprietà, che avevano cambiato i rapporti di forza. La più importante delle conquiste era la dignità. Gli operai si erano guadagnati il timore delle gerarchie, premessa di rispetto. Così posso parlare del silenzio.

All’improvviso si fermavano tutti i macchinari dell’enorme officina. Una a una le linee di montaggio smettevano il frastuono. Sono uno di quelli che hanno conosciuto quel silenzio che inghiottiva il chiasso. Poi da qualche parte del capannone si muoveva un corteo di operai. Marciavano in mezzo alle linee battendo coi martelli su bidoni vuoti, a ritmo di slogan. Passavano da un’officina all’altra a fermare tutto. Facevano il temporale in terra.

I guardiani addetti al controllo della produzione, divisi per squadra, reparto, si andavano a nascondere in cerca di riparo. Se trovati, dovevano sfilare anche loro nel corteo. Il tempo della fabbrica era sospeso. Era in corso il controtempo, scandito a colpi di tamburo. Sono uno di quelli che l’hanno conosciuto. Era preceduto dal silenzio dei macchinari spenti dagli ammutinati”.
(Erri De Luca, Quel silenzio)

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro? E la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto?
Certo che lo è. Quando ero marmocchio negli anni ‘50 era fondata sul lavoro minorile e su quello degli emigranti all’estero che mandavano a casa valuta pregiata. Poi il lavoro è cambiato, i meridionali sono andati nelle fabbriche del nord, lasciando le paghe da miseria dei braccianti e i poveri mestieri artigianali. Li ho visti e conosciuti, sono anche stato uno di loro. Ho partecipato alle lotte per la dignità di essere trattati da uomini, ho sentito l’improvviso silenzio di una fabbrica bloccata dagli operai, i loro cortei in mezzo alle linee di montaggio, il nuovo rumore dei martelli che picchiavano sui bidoni vuoti. Sì, ho visto l’Italia fondata sul lavoro.

Dobbiamo recuperare tutti il senso del dono, della gratuità, della solidarietà. Un capitalismo selvaggio ha insegnato la logica del profitto ad ogni costo, del dare per ottenere, dello sfruttamento senza guardare alle persone e i risultati li vediamo nella crisi che stiamo vivendo”: queste sono parole di Papa Francesco : ma come si fa a recuperare il senso della solidarietà?
Esiste e tiene insieme la società italiana attraverso la più vasta partecipazione al volontariato dei popoli d’ Europa. Questo paese si regge sull’economia del gratis, sullo scambio virtuoso tra necessità stringente e offerta spontanea. La fraternità non è censita dai parametri del PIL, ma questo dimostra solo che i dati sono raccolti con metodi matematici e statistici obsoleti. Se ci si attiene a quei dati l’Italia è geologicamente un cratere spento.

Se parliamo di alienazione, oggi nel 2024, di che cosa parliamo?
Non me ne intendo. Riferirei la parola a un deficit di emotività e affettività. È un’epoca così spaventata dal dolore da anestetizzare i sentimenti personali. Alienazione è percepire ostile il proprio ambiente, mettere tra sé stessi e la realtà il vetro divisorio di uno schermo televisivo o di computer.

Perché bisogna festeggiare il Primo Maggio, quando in Italia muoiono sul posto di lavoro migliaia di persone ?
Si celebra il simbolo di molte conquiste operaie, costate la vita di lavoratori, delle loro famiglie ridotte sul lastrico. Il primo maggio fu giorno di massacro di operai in una manifestazione a Chicago. Ecco che nel 1899 l’organizzazione politica e sindacale della Seconda Internazionale rovescia quella tragedia in giorno di celebrazione, come il patibolo romano della croce si è trasformato da sacrificio in simbolo di resurrezione. In tutti gli altri giorni feriali resta il fatto che il lavoro manuale continua a essere micidiale in termini di più di mille uccisi all’anno e decine di migliaia di feriti. Le facce che incontravo sui mezzi di trasporto che mi portavano alle fabbriche, ai cantieri, mi ricordavano che stavamo entrando per le successive otto ore in una trincea.

Con tutti questi morti sul lavoro non sarebbe necessario che i sindacati organizzassero uno sciopero ad oltranza?
A oltranza è improponibile, a oltranza fino a ottenimento di che risultato? Ma proclamare sciopero generale di tutte le categorie per 24 ore, questo avrebbe un peso.

Non siamo proprio un popolo che ama seguire le regole, secondo lei anche per questo nel mondo del lavoro, si chiude non solo un occhio ma tutti e due? (riguardo alla sicurezza)
Non si tratta di chiusure d’occhio, né di strizzatine, ma di ritmi di lavoro. Sono questi che usurano le energie e abbassano l’attenzione. Nelle piantagioni di cotone gli schiavi cantavano e con quel canto potevano rallentare il ritmo del lavoro, scandendolo più lentamente. Decelerare è la migliore prevenzione.

Come mai un lavoratore non denuncia mai le condizioni in cui è costretto a lavorare? “Costretto” a lavorare = sfruttamento = schiavitù: è questo il progresso di cui tutti parlavano?
Il lavoratore se si sente singolo, isolato, subisce le condizioni imposte. Quando si unisce ad altri, acquista sia coscienza che potere contrattuale. In fin dei conti si tratta di rapporti di forza tra proprietà e salariati. Poi esistono anche imprese sagge che distribuiscono dividendi tra gli addetti, migliori condizioni ambientali, rispetto dei diritti. La compartecipazione è un investimento che migliora il clima del posto di lavoro e anche la produttività.

La prima volta alla mia domanda -”le andrebbe di raccontare quegli anni (Lotta continua)” – mi aveva risposto che si riservava un’intervista a parte per questo argomento. La seconda volta mi ha detto di no che non ne voleva parlare: ritento.
Non si tratta di reticenza ma di mancanza di spazio per una pur minima sintesi. Comunque, Lotta Continua è stato un movimento rivoluzionario pubblico, non clandestino, con sedi, giornali, diffuso in tutta Italia con decine di migliaia di militanti. Nasce a Torino e Milano nelle fabbriche dell’autunno ‘69, stagione dell’ammutinamento operaio nelle linee di montaggio. Si scioglie nel 1976 nel momento di massima espansione e di massima crisi. Ho aderito dall’inizio alla fine. La Fondazione che porta il mio nome ha scannerizzato e messo in rete a uso pubblico le annate del quotidiano Lotta Continua. Una scorsa a qualche pagina può rendere l’idea di cosa sia stato.

Si può parlare di padroni e servi?
Si può usare la parola padrone, padrino, patrigno, ma la parola servo esprime sottomissione e umiliazione. In “Natale in casa Cupiello” Eduardo sdrammatizza il termine con una battuta rivolta a suo figlio:” Tua madre non fa la serva. Tua madre non serve”. Parafrasando, credo che la parola “serva” non serve a indicare un rapporto di lavoro.

C’è troppa differenza di guadagno tra un manager e un operaio, perché non si può dire e non si può fare qualcosa per questa differenza abissale?
La sproporzione di trattamento compiace una società che esibisce le disuguaglianze, per approfondire le divisioni. Ricordo che le prime richieste degli scioperi selvaggi del ‘69 furono gli aumenti in paga base uguali per tutti. Fino ad allora i salari erano frammentati per creare disparità tra gli operai. La lotta fece saltare le divisioni. Che siano i dirigenti a guardare nei piatti degli altri dirigenti e farsi concorrenza a chi guadagna di più. Tra gli operai contava la nuova uguaglianza di trattamento, conquistata.

Il profitto è più importante dell’uomo?
Il profitto è la ragione d’impresa. Ma l’impresa è fatta di persone e senza le loro ragioni l’impresa rende poco.

Lavoro-salario-dignità: quanto sono incompatibili? E quanto il precariato ha disintegrato la dignità del lavoratore?
La dignità è una conquista, non la base di partenza. La base di partenza è il bisogno di lavoro e dunque l’adattamento alla mansione richiesta. Ma poi conta poter tenere la schiena dritta anche quando deve piegarsi. Conta il rispetto sul posto di lavoro, il saluto rivolto in terza persona, meglio ancora per me del sud se dato col voi. E poi conta la soddisfazione per il salario portato a casa. Quello è parte integrante della dignità. Altrimenti vale quel detto delle mie parti:” Levatemi il “Don” e aumentatemi la paga”.

Molte persone anziane sono costrette a lavorare in condizioni tremende e umilianti specie per la loro età, alcuni lo fanno anche per sentirsi utili: perché si è arrivati a questo punto? Perché una persona anziana o viene abbandonata o viene mortificata?
Gli anziani devono dimostrare di essere ancora utili. Lo devono a sé stessi prima che agli altri. Ecco che molti fanno del volontariato o suppliscono con assistenza domestica a figli e nipoti. L’incubo degli anziani è diventare un peso per gli altri, aggravato dal fatto di stare in un’epoca utilitaristica dove il pezzo usurato finisce in discarica. In una tribù africana ogni anno i vecchi dovevano dimostrare di saper ancora salire su un albero. Chi non riusciva veniva abbandonato. Ma una società che rinuncia alla sapienza di chi è vissuto a lungo, spreca la sua ricchezza.

“Vorrei ricordare che il nostro codice penale, benché in parte riformato, è quello firmato da Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III. È un codice tra virgolette fascista “. (Ministro Nordio). Siamo antifascisti e poi ci teniamo il codice penale firmato dal Duce?
La Repubblica nata nel dopoguerra si tenne tutto il personale fascista dentro il servizio pubblico. Nella polizia, nella magistratura, nella scuola non fu fatta nessuna epurazione. Ben più di un codice penale, la nuova Italia si trascinò dietro quella vecchia e ci sono voluti decenni prima che sorgesse una magistratura democratica e con le lotte studentesche si cambiasse l’insegnamento.

La censura è sempre esistita?
La censura è affidata a organi censori. Prima dell’uscita di un film ancora negli anni 50 e 60 una commissione ne valutava l’accesso alle sale. Oggi la censura è un atto servile di chi crede così di compiacere il potere di turno. Senza bisogno di essere richiesta dall’autorità, la censura del dirigente avviene spontaneamente per suo conformismo. La censura permea tutto il sistema d’informazione. Perciò brillano eccezioni come Report, che dovrebbero essere la normalità di un servizio pubblico.

La classe operai va in paradiso di Elio Petri, film del 1971, è un quadro così tanto lontano dall’oggi?
Quel cinema rifletteva in ritardo quello che avveniva già nelle fabbriche e nella società. Il decennio 70, spacciato come anni di piombo, fu decennio di grandi fermenti civili. È lontano da oggi, ma era decennio di eccezione anche allora.

Ho riletto le sue risposte alle interviste precedenti e mi sono accorta, magari sbaglio, che lei ha fiducia nell’uomo: perché?
Frequento il pianoterra della società, per questo ho fiducia nelle fibre della gente italiana.

1 Maggio 2024

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