La riforma
Perché Meloni ha perso in Sardegna, la premier ha peccato di presunzione: un allarme rispetto alla legge del ‘Premierato’
Libertà Eguale, Fondazione Magna Carta rilanciano l’appello alla premier ad aprirsi alle proposte messe a punto in un manifesto comune
Politica - di Vittorio Ferla
Il voto in Sardegna è stato una doccia fredda per Giorgia Meloni. Ha dimostrato, prima di tutto, che il centrosinistra, se e quando si unisce, può vincere. E che l’arroganza nella selezione di una classe dirigente mediocre – prima la giubilazione del presidente uscente Christian Solinas, poi l’imposizione di un candidato amico di militanza come Paolo Truzzu – non paga.
Il primo campanello d’allarme per la premier suona in vista delle elezioni europee: nelle prossime settimane la competizione dentro la maggioranza diventerà sempre più aspra, visto che Matteo Salvini gioca una partita cruciale per mantenere la sua leadership sulla Lega. L’autocandidatura di Meloni potrebbe non bastare. Ma l’altro campanello d’allarme per la presidente del consiglio suona sulla riforma del premierato.
Finora la maggioranza è andata avanti come un treno, sicura di vincere un eventuale referendum costituzionale vista la divisione e l’inconsistenza delle opposizioni. Ma il caso sardo dimostra che la prepotenza può scatenare una reazione eguale e contraria: il vento può girare e l’appello al popolo potrebbe trasformarsi in un bagno di sangue.
Fino ad oggi è stato muro contro muro, ma se davvero Meloni vuole portare a casa la riforma, il dialogo con l’opposizione diventa essenziale. Martedì scorso a Roma, nel corso della maratona oratoria “Premierato, non facciamolo ‘strano’!”, un gruppo di associazioni ispirate da un approccio ‘no partisan’ – Libertà Eguale, Fondazione Magna Carta e Io Cambio – ha rilanciato un manifesto per la riforma condivisa della Costituzione proponendo una serie di correzioni al testo di maggioranza.
Un testo che, dalla modalità di scelta del premier fino alla norma antiribaltone e alla legge elettorale inserita in Costituzione, è infatti un enorme pasticcio, come hanno dimostrato gli interventi dei partecipanti.
Eppure la riforma delle istituzioni può essere utile. Come spiega Natale D’Amico, consigliere della Corte dei conti e co-fondatore di IoCambio, una delle associazioni che ha promosso l’evento, “nel 1995 l’economia italiana pesava il 20% in Europa, oggi siamo al 15%. Da trent’anni sperimentiamo un declino. Cambiare lo Stato è necessario per cambiare l’economia. Ma come si fa a cambiare e crescere se in 76 anni abbiamo avuto 68 governi? Abbiamo perso troppe occasioni ma non è stato gratis. Ecco perché le riforme istituzionali sono necessarie. E poi vogliamo riconoscere ai cittadini il diritto di scegliere il governo?”.
Gli fa eco Enrico Morando, ex viceministro dell’economia e presidente di Libertà Eguale, che ricorda la Tesi 1 dell’Ulivo per affermare che “se il Pd dice no a priori alla premiership, smentisce la sua stessa storia”.
Dalla riunione emerge prima di tutto un’opzione metodologica: per realizzare la riforma costituzionale è molto meglio proseguire sull’opzione preferenziale indicata dall’articolo 138 della Costituzione, ovvero la riforma condivisa da due terzi del parlamento, senza ricorso al referendum che rischia di trasformare la questione in una inutile prova di forza plebiscitaria.
Sul piano tecnico, si fa strada una sorta di ‘lodo Barbera’, dal nome di Augusto Barbera, oggi presidente della Corte costituzionale, che al tempo della bicamerale D’Alema nel 1997 fu l’estensore di una proposta di riforma del premierato fondata sul ballottaggio.
Il primo turno vedrebbe il confronto tra le coalizioni con la designazione dei candidati premier. Il secondo turno servirebbe per selezionare il capo del governo sulla base della maggioranza dei consensi.
Un’ipotesi di mediazione, sensata e funzionale, verso la quale, per ora, sia la maggioranza che l’opposizione mostrano indifferenza. Ma sulla quale Meloni dovrebbe riflettere per evitare di ritrovarsi – come Renzi nel 2016 – sconfitta e sfiduciata.