Le elezioni Usa

“Biden efficace, ma gli americani vogliono Trump perché stanchi delle guerre”, parla Mario Del Pero

«Il presidente in carica fa fatica nei rapporti con la stampa ma ha portato a casa risultati significativi. Il problema è che l’ansia dell’immigrazione e l’attivismo internazionale recente favoriscono The Donald tra i bianchi anziani»

Interviste - di Vittorio Ferla

14 Febbraio 2024 alle 12:00

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“Biden efficace, ma gli americani vogliono Trump perché stanchi delle guerre”, parla Mario Del Pero

La campagna presidenziale degli Stati Uniti entra nel vivo. Ne parliamo con Mario Del Pero, esperto di storia americana e professore di Storia internazionale presso l’Institut d’études politiques Sciences Po di Parigi.

Il Senato Usa ha approvato ieri mattina un disegno di legge sugli aiuti esteri da 95,3 miliardi di dollari che prevede l’assistenza per Ucraina e Israele: 70 sì contro 29 no, con 22 repubblicani che hanno votato a favore, incluso il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell. Come possiamo leggere questo voto?
Temo che la misura si possa arenare nella Camera bassa. Quanti di questi senatori devono correre alle elezioni in autunno? Il loro mandato dura sei anni e un terzo dei senatori viene eletto ogni due anni. Ecco perché i senatori sono spesso meno condizionati dalle contingenze elettorali e al Senato è più semplice trovare accordi tra maggioranza e opposizione. Viceversa, alla Camera dei Rappresentanti il peso delle scadenze elettorali è molto forte. Trump non vuole il compromesso con i democratici, dunque i rappresentanti repubblicani che si mettono contro Trump rischiano il posto a favore di competitor più agguerriti e allineati.

Trump ha detto che incoraggerebbe Putin a fare “quel che diavolo vuole” con gli alleati europei che non danno soldi alla Nato. Potrebbe davvero portare fuori gli Usa dalla Nato?
Da Trump possiamo aspettarci di tutto. Nei quattro anni della sua presidenza c’è sempre stato uno scarto tra quello che diceva e quello che poi faceva davvero. Non abbiamo dimenticato le volte in cui ha attaccato la Nato, dicendo tra l’altro che l’articolo 5 – quello che sancisce la difesa collettiva degli alleati e presuppone l’intervento armato: se un paese membro della Nato venisse attaccato, gli altri sarebbero in dovere di intervenire con tutti i loro mezzi a disposizione, compresi quelli militari – non contava più. Nel caso di un secondo mandato, peraltro, sarebbe più libero: il gabinetto del quadriennio 2016-2020 era costruito per temperarlo e alfabetizzarlo, questa volta la scelta dei collaboratori sarebbe completamente sua. C’è da dire che il Senato è riuscito ad approvare di recente una norma che permetterebbe l’uscita dalla Nato soltanto in presenza di una maggioranza dei due terzi: sembra fatta apposta per bloccare Trump. Tuttavia, egli potrebbe comunque svuotare di senso la Nato e obbligare gli alleati a fare molto di più di quanto facciano adesso.

Non sarebbe la prima volta che un presidente americano chiede un maggior impegno degli alleati europei.
Trump dice una cosa che tanti altri presidenti americani hanno detto prima di lui, da Kennedy a Nixon a Obama. Trump ovviamente lo dice male, senza la giusta grammatica. Parla al suo pubblico che ama dare addosso all’Europa. Durante la sua presidenza, il Council of Economic Advisers – che fa parte dell’Ufficio Esecutivo del Presidente e istruisce la politica economica della Casa Bianca – rilasciò uno studio discutibile che criticava il socialismo europeo dei paesi scandinavi giungendo a conclusioni improbabili e vantando la maggior capacità del sistema americano sul fronte delle politiche sociali.

Sul versante repubblicano Trump sembra ormai inattaccabile. Il suo estremismo potrebbe allontanare i suoi stessi elettori?
Sono sempre di meno gli elettori repubblicani che non amano Trump. In un contesto polarizzato come quello americano gli elettori conservatori votano a prescindere contro i diritti civili, contro i giovani e contro la cultura Lgbt. Esiste un’ampia maggioranza contro i democratici. L’obiettivo di alcuni settori del partito era quello di far convergere i consensi contro Trump su un solo antagonista, invece di disperdere voti tra più candidati. Nel 2016 forse questa operazione sarebbe bastata, ma questa volta no: basta vedere quanto Nikki Haley sia distaccata nelle preferenze. Il Gop oggi è il partito di Donald Trump. Eppure, in un contesto così polarizzato – gli stati decisivi saranno 6-7 al massimo – bastano poche defezioni. Trump è l’avversario migliore per i democratici perché galvanizza l’elettorato progressista e aliena qualche elettore repubblicano più moderato: la base del partito Gop è ormai completamente ‘trumpizzata’, ma Trump sembra perdere qualche consenso.

E che cosa dire di Joe Biden? Con una politica economica di stampo keynesiano e il sostegno convinto all’Ucraina, il presidente uscente sembra aver fatto bene. Ciò nonostante, gli americani non lo amano.
Conta molto la polarizzazione politica. C’è un blocco elettorale che si muove per opposizione e ciò vale anche per i democratici. Un secondo motivo è l’insoddisfazione verso forme di attivismo internazionale che in America non piacciono più. I critici della globalizzazione sono tanti: siamo ancora sotto l’influsso della crisi del 2008. Sul fronte dell’economia è vero che ci sono stati ottimi risultati, ma i consumatori soffrono anche un aumento del costo della vita. Anche se l’inflazione torna a calare, rispetto a due-tre anni fa i prezzi sono aumentati del 20-30% e si avvertono direttamente nelle tasche di pensionati e salariati.

E poi c’è la questione dell’età…
Finora Biden ha governato efficacemente. La sua è una delle amministrazioni più diligenti nella storia americana: basti pensare che non ha sofferto dimissioni, a differenza del gabinetto di Trump che era un caos costante. Inoltre Biden ha ottenuto al Congresso dei successi impensabili, portando a casa provvedimenti legislativi cruciali come l’American Rescue Plan, l’Inflation Reduction Act, e l’Infrastructure Investment and Jobs Act. Biden sa delegare e lavora bene. Tuttavia appare poco lucido. Dai tempi di Reagan è il presidente che ha fatto meno conferenze stampa: pur cercando il dialogo con i giornalisti non riesce a interagire in modo efficace, così i suoi collaboratori sono spesso costretti a limitare le sue uscite e a interrompere le sue comunicazioni.

Esiste un problema di ricambio nel Partito Democratico americano? Si può parlare di una crisi di identità e di leadership?
A dispetto di quello che si immagina, il partito democratico si è ringiovanito. Una volta l’età media dei rappresentanti al Congresso era più alta, adesso si è abbassata. I dem hanno riscosso molti successi a livello statale: ci sono giovani governatori dem molto popolari in Michigan, California e Illinois. Il segretario ai trasporti Pete Buttigieg è un giovane che fa politiche coraggiose. Ma questa generazione non arriva ancora alle posizioni apicali: basti pensare al lungo regno di Nancy Pelosi alla Camera e a Chuck Schumer, leader della maggioranza dem al Senato a 73 anni. Tuttavia il partito democratico mostra maggiori competenze e capacità di governo rispetto al Gop che offre uno spettacolo di confusione e caos. Ovviamente, pesa anche la composizione molto diversificata dell’elettorato. I repubblicani sono perlopiù maschi bianchi anziani: si tratta di un elettorato molto omogeneo. Tenere insieme i democratici, con le loro profonde differenze, è più complicato. Negli ultimi anni, i repubblicani hanno conquistato la maggioranza popolare solo nel 2004, ma i dem fanno più fatica a portare gli elettori alle urne.

Ad ogni modo, la riproposizione della sfida Trump vs Biden appare ormai cosa fatta. Gli americani potrebbero stupirci?
Se, nel caso di Biden, dovesse pesare a un certo punto l’impedimento dell’età, ci sarebbero due strade percorribili. Una è la candidatura della sua vicepresidente, ma, per vari motivi, Kamala Harris è ancora più debole e impopolare di Biden. L’altra ipotesi sarebbe quella della ‘convenzione aperta’ nella quale i delegati democratici che sono stati selezionati sarebbero comunque liberi di votare per un altro candidato. Ma anche questo scenario pare improbabile visto che la convenzione si svolge a troppi pochi mesi dal voto.

Gli elettori indipendenti potrebbero avere un peso sulla bilancia del consenso?
Gli indipendenti pesano relativamente poco. Sono elettori che non si registrano per il voto, ma potrebbero comunque avere posizioni molto precise. Insomma, gli indipendenti non sono necessariamente dei centristi. Certo, in molti stati potrebbero avere comunque un peso. Per i due contendenti la sfida resta quella di mobilitare in pieno il proprio elettorato.

Il tema centrale della campagna presidenziale sembra sempre di più l’immigrazione.
Le resistenze al Congresso dimostrano che i repubblicani hanno tutto l’interesse a tenere caldo il tema dell’immigrazione, evitando di lasciare a Biden il merito di risolvere il problema. Per loro è un tema vincente: perfino nei quartieri del Queens e di Long Island a New York è diventato un tema che spaventa e preoccupa per la presenza di tendopoli. Perfino chi ha votato democratico tutta la vita ora non esclude di votare a destra. L’immigrazione resta un tema centrale anche perché è trasversale: si collega ai problemi del degrado e della sicurezza delle città e diventa un aggancio di politica estera perché tocca la questione dei confini. Tuttavia, anche i democratici possono puntare su dei temi forti: uno di questi è l’aborto che può essere decisivo per mobilitare i propri elettori delle aree metropolitane.

14 Febbraio 2024

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