La sfida riformista
Intervista a Enrico Morando: “Liberalizzare è di sinistra, sulle riforme accordo possibile”
«È finita l’era dell’egemonia liberista, nel contesto globale il confronto è tra capitalismo liberale e capitalismo di Stato. Bisogna abbandonare il “come eravamo” e puntare su scelte innovative rispetto alla nostra tradizione»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La “sfida riformista”, dentro e fuori il PD, declinata da Enrico Morando, leader dell’area liberal del Pd, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già vice ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni.
Il 2024, anno elettorale. Di sfide politiche. Il PD, questo PD, è attrezzato per affrontarle e vincerle?
Il 2024 è l’anno in cui Trump potrebbe vincere le elezioni negli Stati Uniti. In cui Putin potrebbe aver ragione dell’eroica resistenza del popolo ucraino e annettersi -con la forza delle armi- parte dell’Ucraina, un Paese candidato all’ingresso nell’Unione. È l’anno in cui l’Europa -che non riesce a diventare un soggetto protagonista della politica globale, malgrado sia un gigante economico-, potrebbe conoscere un drastico spostamento a destra dell’asse politico attorno al quale si è organizzato, nei decenni che ci stanno alle spalle, il processo di integrazione, minandolo dalle fondamenta. È possibile che le forze democratiche e progressiste -a partire da quelle della sinistra di governo di tutto l’Occidente- si mostrino all’altezza di questi rischi drammatici e senza precedenti negli anni post 1945? Certo che è possibile. E vale anche per il PD italiano. Ma il mutamento radicale che è in atto nella realtà (un solo esempio: chi poteva pensare, qualche anno fa, che il leader del partito repubblicano americano avrebbe credibilmente minacciato di violare il trattato della Nato, non soccorrendo -una volta diventato Presidente- un alleato invaso da una grande potenza come la Russia?), reclama un drastico mutamento di posizionamento politico e di strategia. L’Unione europea di difesa, nell’ambito della Nato, va realizzata ora, subito. Essa deve essere messa al servizio di una politica estera che superi ogni ambiguità nel rapporto con le autocrazie che vogliono riscrivere le regole del governo globale a loro somiglianza. Non scegliere da che parte stare, nel confronto che si è aperto, sarebbe semplicemente suicida. Se non si collocano in questo contesto le sfide elettorali che ci attendono, anche in Italia, si rischia di accrescere il divario tra la realtà, a cui i cittadini guardano con crescente preoccupazione (quando non è già paura), e la competizione per la conquista del consenso tra le forze politiche, che evitano i nodi difficili e sembrano occuparsi più di se stesse che di costruire soluzioni praticabili ai problemi della libertà e della pace nuovamente minacciate, della crescente disuguaglianza nelle società occidentali (quella tra Paesi è da tempo in drastica riduzione).
Combattere le diseguaglianze, una visione della crescita che rompa con l’iper liberismo, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo, mobilitarsi contro il genocidio in atto a Gaza …Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?
Il confronto che è in atto nel mondo non è tra capitalismo e socialismo; e non siamo più nella fase dell’egemonia liberista (quella seguita ai “nostri” 30 gloriosi del 900, segnati da una solida egemonia socialdemocratica). Nel contesto globale il confronto è tra capitalismo liberale e capitalismo di Stato. Mentre nelle nostre società il conflitto sociale si disgrega in mille conflitti di identità e di gruppi isolati, in assenza di grandi organizzazioni politiche e sociali (partiti di sinistra e sindacati) che riescano a prospettare prima e a far prevalere poi una visione politico-programmatica dallo sguardo lungo. Penso che la sinistra possa uscire da questa confusione quotidiana solo se abbandona l’idea che la soluzione stia nel ritorno a “come eravamo” e a “come abbiamo sempre fatto”, per proporsi di costruire partiti programmatici di tipo moderno, ispirati ai valori eterni, ma capaci di inverarli in scelte politiche puntuali e al tempo stesso fortemente innovative rispetto alla nostra tradizione. Per uscire dal generale, faccio un esempio piccolo piccolo: non puoi passare mesi e mesi a paventare sfracelli sociali per il superamento graduale del mercato tutelato dell’energia elettrica e poi, quando la parziale liberalizzazione consente un ritocco verso il basso delle tariffe, rilanciare inalterate le tue preoccupazioni, solo spostandole ad un futuro più lontano. Forse, sarebbe più utile accettare che anche le liberalizzazioni, se fatte bene (e gran parte di quelle di Bersani lo erano), debbono entrare nel cassetto delle soluzioni “di sinistra”, anche se un tempo non ne facevano parte. Nella sua domanda mi chiede della tragedia in atto a Gaza: è indispensabile che cresca la mobilizzazione in tutto il mondo perché Hamas rilasci immediatamente gli ostaggi e si arrivi ad una tregua. Contesto però che quello in corso sia un genocidio: l’obiettivo perseguito da Israele -annientare l’organizzazione che ha messo in atto il massacro orrendo del 7 ottobre, a danno di ebrei in quanto ebrei- è legittimo. Lo sta perseguendo con mezzi che fanno pagare alla popolazione della Striscia un prezzo inaccettabilmente alto. Per questo, va sostenuto il tentativo dell’Amministrazione Biden di convincere il Governo di Israele a concedere una tregua. Ottima, in questo senso, l’iniziativa del PD che ha consentito una larga convergenza in Parlamento.
E sul fronte migranti?
Quanto al governo dell’immigrazione, capace di ridimensionare drasticamente -se non di azzerare- i viaggi della speranza che si trasformano troppo spesso in viaggi verso la morte, continuo a pensare che non ci siano alternative: governo europeo dei confini, in capo ad una forza europea; verifica del diritto dei richiedenti asilo da parte di un organismo giudiziario europeo; programmazione di forti flussi in entrata; partenze programmate dai Paesi di origine, sulla base di precise intese, che prevedano conoscenza dei rudimenti della lingua e delle regole costituzionali fondamentali (specie in materia di ruolo della donna nella società); organizzazione del viaggio dei migranti regolari a carico del paese ospitante; infine, a questo punto, respingimento dei clandestini.
Finito Sanremo, ora si attende il faccia a faccia tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein…
Questa del “mi candido o non mi candido” è, per l’opposizione del PD, un’occasione persa. Meloni gode ancora di un notevole consenso, ma ha un partito che è cresciuto troppo in fretta, dotato di personale politico non sempre all’altezza. È questo deficit che la “obbliga” a candidarsi, sapendo benissimo che non potrà fare il parlamentare europeo. La sua candidatura in tutte le circoscrizioni prende quindi le sembianze di una vera e propria truffa a danno dei suoi elettori, presi per sciocchi. Quindi, un nostro inflessibile “Il Parlamento europeo è una cosa seria. Noi siamo seri e candidiamo solo persone che possono impegnarsi davvero in quella sede“, avrebbe potuto essere -al di là dell’efficacia elettorale, che non è facilmente prevedibile- una buona arma polemica. Ora, quale che sia la scelta finale, lo sarà un po’ meno.
Si dice spesso, ma si argomenta poco e male, che alla fine il governo delle destre vivrà o cadrà sull’economia. Cos’è, una speranza, una illusione e in tutto questo l’opposizione?
Anche in materia di politica economica servono soluzioni che agiscano nel presente, ma siano ispirate ad obiettivi di medio-lungo periodo. Il Governo Meloni è schiacciato sul brevissimo termine: è arrivato al punto di presentare una Legge di bilancio -nel primo anno di legislatura- che si concentra, lodevolmente, sulla riduzione del cuneo fiscale sui salari bassi, ma lo fa per un solo anno: nel 2025, chi vivrà vedrà. Dicono che replicheranno le misure anche per il futuro. Ma, se lo facessero, non rispetterebbero gli obiettivi che la loro Legge di bilancio programma di raggiungere in termini di riduzione del debito. Nella trattativa europea sulle nuove regole del Patto di stabilità, Meloni ha scommesso tutto sulla logica “a pacchetto: io ratifico il MES se voi mi date un altro anno di sospensione del Patto… o, almeno, una qualche forma di esclusione degli investimenti. Così, ha completamente trascurato la sostanza del confronto in atto, cioè la proposta iniziale della Commissione, molto più interessante-per l’Unione e per l’Italia-della debole soluzione finale. E ancora: il Governo, nel tentativo di allontanare da sé l’attenzione dei cittadini colpiti dalla crescente inflazione, vara in fretta e furia uno scombiccherato prelievo straordinario sugli “extraprofitti” delle banche, guardandosi bene dall’intervenire con strumenti di regolazione per accrescere la concorrenza tra gli istituti, riducendo le rendite di cui godono. Poi, appena l’inflazione accenna a calare, cancella alla chetichella la tassa-spot, mentre le banche festeggiano con dividendi da record. Potrei fare altri esempi, ma credo che bastino questi tre. A fronte di un Governo che si muove così, incespicando continuamente sulle sue contraddizioni (rimette l’Irpef sui redditi agrari che i Governi di centrosinistra avevano tolto; poi cerca di salire sui trattori e la ritoglie, ma non tutta…), l’opposizione deve prendere a riferimento un orizzonte più lungo: la capacità fiscale dell’Unione, sviluppando la svolta del Next Generation EU, per produrre beni comuni europei; la revisione della spesa come asse della gestione della finanza pubblica; il contrasto all’evasione come base per la riduzione del prelievo sulla maggioranza che paga il dovuto (il Governo Meloni sta invece utilizzando i brillanti risultati ottenuti con la fatturazione elettronica obbligatoria introdotta dai Governi di centrosinistra, per finanziare nuova spesa); una politica industriale che si ispiri agli obiettivi e alle procedure di Industria 4.0, inserendola nel nuovo contesto creato dal PNRR; un insieme di regole ed interventi fiscali che favorisca il rilancio della contrattazione di secondo livello, per salari più elevati in un contesto di produttività crescente. Muovendoci su questa linea, possiamo gradualmente costruire una credibile alternativa di governo, che oggi non c’è.
Intanto il Governo tenta la forzatura sulla riforma della Costituzione…
Nel documento di Libertà Eguale, Magna Carta e Io Cambio -che verrà discusso in una “maratona oratoria” il prossimo 27 febbraio a Roma-, ci siamo rivolti sia alla maggioranza, sia all’opposizione, per sollecitare entrambe ad un diverso atteggiamento di partenza: se la riforma è necessaria (se non lo fosse, non avremmo alle spalle trent’anni di tentativi di riforma, sia ad opera del centrodestra, sia ad opera del centrosinistra) bisogna puntare ad un accordo, che consenta un larghissimo consenso nel Parlamento e nel Paese. Le condizioni “tecniche” per arrivarci sembrano esserci: Meloni ha abbandonato la sua pregiudiziale presidenzialista, spostandosi sul modello del cosiddetto premierato. Il centro sinistra, dalla tesi numero uno dell’Ulivo fino al progetto Salvi della Bicamerale D’Alema, ha sempre sostenuto il modello del governo del Primo Ministro. La distanza non è incolmabile, se si parte dalla definizione dei poteri di questo Primo Ministro, da rafforzare rispetto a quelli attuali del Presidente del Consiglio, ma da mettere in equilibrio con quelli del Parlamento e del Presidente della Repubblica. Questi poteri devono essere di tipo europeo (su fiducia e sfiducia; nomina e revoca dei ministri; scioglimento delle Camere). Il peso degli elettori nella scelta del Primo Ministro deve essere determinante, come avviene in tutte le democrazie europee a forma di governo neo-parlamentare.