Finita la farsa
Perché Conte ha ritirato l’istanza contro Meloni, il giurì d’onore finisce in farsa
La querelle riguardava l’accusa della premier contro Conte: quella di aver dato il via libera alla riforma del Mes quando già dimissionario e nonostante il parere contrario del Parlamento. “Giuseppi”, ritenendo offesa la sua onorabilità aveva chiesto la convocazione del Giurì: “Io voglio giustizia”.
Politica - di David Romoli
Non è che finisce in farsa: era cominciata in farsa, anzi trattavasi di farsa e la conclusione è degna. Il Giurì d’onore, chiamato a dirimere il contenzioso tra la premier e il suo predecessore oggi leader dei 5S, si scioglie senza emettere verdetto, avendo il denunciante, Conte avv. Giuseppe, ritirato l’istanza.
Era stato proprio il leader pentastellato a chiedere lo scioglimento del Giurì, essendo “venute meno le condizioni di terzietà”. In effetti, avendo i due rappresentanti dell’opposizione Filiberto Zaratti (Avs) e Stefano Vaccari (Pd) rassegnato le dimissioni in segno di protesta perché nella relazione conclusiva erano a loro parere “prevalse motivazioni, ancorché significative di ordine politico” la terzietà era andata a farsi benedire, essendo rimasti solo il presidente Giorgio Mulè (Fi), e i giurati della destra, Cecchetti (Lega) e Colucci (Noi Moderati).
Alla fine, dunque, l’unico a perdere l’onorabilità sarebbe stato Mulè, il presidente del Giurì accusato di essere di parte e si capisce che il forzista non accetti lo stigma a bocca chiusa. Convoca invece una conferenza stampa e spara a palle incatenate: “Non c’era stato nessun voto, nessuna spaccatura tra maggioranza e minoranza. Zaratti e Vaccari hanno abbandonato il campo, Conte si è portato via la palla: questo non appartiene al mio senso delle istituzioni. Il mio ruolo di arbitro è stato terzo e imparziale”.
Poi rincara: “Singolare che Conte abbia ricavato la certezza di un parere non imparziale semplicemente leggendo la lettera dei due dimissionari. In tribunale quello di Conte sarebbe stato oltraggio alla Corte. Qui è oltraggio alla Camera dei deputati”. Implicitamente dà ragione a Mulè il presidente della Camera Fontana, che, annunciando il “partita nulla” ha ringraziato il presidente del Giurì “per l’accuratezza e precisione del lavoro svolto e per la perfetta aderenza al regolamento della procedura seguita”.
Come siano andate le cose nessuno può dirlo con certezza, ma con un ragionevole margine di probabilità si può invece fare. La lettura delle 17 pagine di relazione finale era quasi conclusa, ne mancavano giusto un paio, quando i due giurati d’opposizione hanno chiesto un’interruzione, al termine della quale, senza peritarsi d’avvertire il presidente che ha scoperto la sgradita novità sulle agenzie di stampa, hanno spedito l’infuocata lettera di dimissioni.
Immediatamente dopo, a strettissimo giro, è partita la lettera di Conte che imponeva di fatto lo scioglimento del Giurì prima che emettesse il parere. Dal Pd sono i molti ad ammettere che nei giorni precedenti pressioni di Conte c’erano state e anche in quantità, anche se nessuno dice in quale direzione e con quale scopo.
Ma bastano le dimissioni in extremis dei due deputati d’opposizione per capire che il parere non avrebbe dato ragione a Conte e di conseguenza non ci vuole molto a ipotizzare quale fosse l’obiettivo delle suddette pressioni. Non a caso il Pd appariva ieri visibilmente infastidito dall’intera vicenda e a quei 5S che insistevano per un nuovo Giurì si è incaricato di rispondere secco l’ex ministro Orlando: “Non mi pare il caso”. Non se ne parli più e cali il velo pietoso.
La querelle riguardava l’accusa mossa col massimo clamore, in aula e in diretta tv, dalla premier contro il suo predecessore: quella di aver dato il via libera alla riforma del Mes “col favore delle tenebre”, cioè quando già dimissionario e nonostante il parere contrario del Parlamento. “Giuseppi”, ritenendo offesa la sua onorabilità aveva chiesto la convocazione del Giurì: “Io voglio giustizia”.
Essendo la commissione vicina ad esprimere un parere di segno opposto, l’ “avvocato del popolo” ha preferito far saltare il tavolo e il Pd, obtorto collo, si é dovuto adeguare. Del resto anche il parere dei tre esponenti della Giunta favorevole alla premier avrebbe fatto poco testo: il sospetto di essersi pronunciati a favore della propria leader di coalizione lo avrebbe inficiato comunque e poco importa se a torto o a ragione.
Si aggiunga che detto parere non avrebbe avuto alcuna conseguenza né in un caso né nell’altro e non sarebbe neppure stato sottoposto al voto dell’aula, si sommi il totale disinteresse anche degli stessi addetti ai lavori per la messa in scena e si capisce perché l’intera vicenda fosse surreale e appunto farsesca. In realtà una logica però c’era: quella della propaganda spiccia. In ballo non c’era l’onorabilità dei due leader coinvolti, e doverosamente auditi dall’inutile Giurì.
C’era solo il rifornimento dell’arsenale di armi propagandistiche da adoperare nei talk show. Un po’ lo si è sempre fatto, la politica è anche questo. Il problema è che da un po’ la politica è diventata solo questo e ora c’è anche il rischio di un nuovo Giurì, stavolta al Senato, chiesto dal presidente della commissione Affari costituzionali Balboni.
In aula il capogruppo Pd Boccia lo ha accusato con toni fiammeggianti di aver minacciato l’Avs Tito Magni, la sera prima in commissione, di chiedere “l’intervento della forza pubblica” in seguito alle contestazioni nel corso dell’intervento di una senatrice di maggioranza.
Balboni smentisce, assicura di aver inteso non i carabinieri col pennacchio e con le armi ma solo i commessi, e chiede al presidente La Russa che venga convocato il Giurì. Ma una lotta politica combattuta a colpi di ricorsi ai Giurì d’onore magari sarebbe opportuno evitarla.