Il centenario
Lenin, il centenario dalla morte: genio o despota?
Se si vuole provare a valutare il grande rivoluzionario russo scomparso il 21 gennaio del 1924 bisogna tornare a quel secolo e a quegli anni. Al difficile rapporto tra tattica e strategia, ideali e cinismo, umanità e ferocia. Il socialismo? Quando tutti vogliono godere dei beni della vita
Editoriali - di Michele Prospero
Chi è stato Lenin? Edward Carr lo reputava “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. Lo storico di Cambridge per questo lo inquadrò come “un genio più costruttivo che distruttivo”. Secondo Orlando Figes, invece, si tratta di un despota orientale che può essere considerato “il primo leader moderno di partito a ottenere lo status di un dio”. Solo la ricostruzione della vicenda politica di Lenin può sciogliere l’arcano.
Il Comitato centrale del 10 ottobre del ’17, che scelse di imbracciare le armi, vide Lenin scontrarsi con la vecchia guardia bolscevica, ostile al ricorso alla forza. Braccato dalla polizia, e perciò in giro con parrucca e barba rasa, solo dopo che erano volate parole grosse Lenin riuscì a spuntarla: 10 contro 2. Mangiando un pezzo di formaggio e mordendo del pane nero, strappò da un quaderno di un bambino un foglio sul quale vergò di suo pugno l’ordine: “insurrezione”.
Prima di sfidare il vuoto di potere, Lenin attese che i bolscevichi diventassero la formazione maggioritaria nelle rappresentanze istituzionali, nelle fabbriche e nell’esercito (a Mosca 14 mila su 17 mila soldati erano comunisti).
L’avvocato Lenin ebbe però bisogno di un acuto suggerimento di Trockij per dare una copertura legale alla sua tattica spregiudicata: collegare l’insubordinazione non al diktat di partito, ma alla deliberazione del Congresso panrusso dei Soviet ormai dominato dai bolscevichi e dagli alleati.
Alle 10 del mattino del 25 ottobre, con una impresa da Lenin ritenuta “eccezionalmente incruenta”, lo scettro passò nelle mani dei Soviet. Tra i primi provvedimenti si segnalarono: l’adozione del programma economico dei populisti (la terra ai contadini), la richiesta di pace, un ampio catalogo di diritti civili (scioglimento volontario del matrimonio, equiparazione dei figli naturali a quelli legittimi e diritto della madre di citare in giudizio il padre per gli alimenti).
Lenin parlò di “una legislazione assolutamente libera sul divorzio” e rivendicò spazi politici per le donne, che nelle democrazie d’occidente erano invece ancora “esseri senza diritti”. Secondo Lenin, non esiste alcuna eguaglianza di genere senza una battaglia sistematica contro “i piccoli lavori dell’economia domestica”, che conformano “il lavoro meno produttivo e più barbaro” su una base schiettamente sessuale. I diritti non sono nulla, se mancano reti di istituzioni sociali, “i ristoranti popolari, i nidi, i giardini d’infanzia”.
Alle istanze iper-democratiche dell’Ottobre seguì il buio sanguinoso della guerra civile, promossa, contro lo scandalo dello “Stato operaio”, dall’Armata Bianca con l’appoggio degli Stati Uniti di Wilson, della Francia, dell’Inghilterra, del Giappone.
Lenin al governo fronteggiò crisi interne, l’abbandono di tre bolscevichi dissidenti, contrasti con l’esercito. Con la guerra civile, gli “immensi pericoli militari” e il sabotaggio diffuso, i soggetti del pluralismo vennero silenziati: dopo la soppressione dell’Assemblea costituente nel 1918, nel 1921 furono messi fuori legge i menscevichi, nel 1922 toccò ai socialisti rivoluzionari. E pensare che lo statuto del partito del 1917 alludeva ad un impianto pluralistico e prevedeva assetti federali al proprio interno, senza neppure fare menzione del dovere di fedeltà per i militanti.
Il novello ordinamento ondeggiava a seconda degli accadimenti bellici. Quando i bianchi avanzavano, venivano ristretti gli ambiti delle libertà. “Non tolleriamo una opposizione, questa è una guerra per la vita e per la morte”, scandì Lenin. Anzi, egli aggiunse che, nella lotta per la difesa di una rivoluzione proletaria, non si aveva di fronte una “opposizione” ma il “nemico”. Esitazioni non erano permesse: “il nostro potere è eccessivamente mite, addirittura più simile alla gelatina che al ferro”.
Appena le sorti militari furono più favorevoli, il governo allentò la morsa emergenziale. Tra le forzature illiberali, autorizzate anche da Lenin per rispondere a concrete sfide per la sopravvivenza (“Il terrore ci è stato imposto dal terrorismo dell’Intesa e dalle guardie bianche”), e l’ossatura di un regime totalitario, sussiste però una differenza rilevante: quella del condottiero bolscevico non era un’autocrazia personale.
Contro “l’eruditissimo Kautsky”, per il quale “la parola dittatura significa letteralmente dittatura di un singolo”, Lenin ribadì che si trattava invece di una espressione latina da intendere non quale dispotismo di una persona, ma come dominio in riferimento alla classe.
Un libertario come Victor Serge invitava a non estrapolare dallo schematismo amico-nemico, quale grammatica di ogni guerra, la facile assimilazione di Lenin a uno stratega del “totalitarismo”: “Nessuno si sognava di battersi per uno Stato totalitario; gli uomini combattevano e morivano per un nuovo tipo di libertà. Il bolscevismo trionfò proclamando alle masse e al mondo una democrazia di operai liberi mai vista. La prima costituzione sovietica scritta da Sverdlov garantiva ogni libertà ai lavoratori”.
In effetti, nulla era più distante da Lenin, e dalle combattive élite bolsceviche, che l’idea di una divinizzazione del corpo del capo. I bolscevichi “non sono selvaggi” e Lenin, respingendo la ricetta di Bucharin di “un dittatore nel miglior senso della parola”, asseriva che la leadership doveva operare entro una struttura collettiva con voci dissonanti. Il partito al vertice – ha spiegato il politologo Archie Brown – non costituiva un plesso autocratico imperniato su di una individualità, ma un sistema oligarchico dall’autorità collegiale che contemplava un significativo pluralismo intra-organizzativo e continui scontri di tendenze.
In occasione dei suoi 50 anni, uscirono dei ritratti con parodie di Lenin, il quale ne approfittò per definire come “situazione assai pericolosa” quella di un partito guidato da “un uomo solo che esagera i suoi meriti”. La dura lotta di fazione non esclude colpi dialettici tra leader, ma non consente scorciatoie amministrative, misure di polizia o la demonizzazione del dissenso.
Nel 1919 Lenin affermò: “La lotta che si è accesa nel nostro partito lo scorso anno è stata estremamente feconda; essa ha suscitato numerosi e aspri conflitti, ma ovviamente non c’è lotta senza aspri conflitti”. Non è di poco conto quello che ha sostenuto al riguardo Barrington Moore: “Lenin non fece mai il passo dalla violenza verbale all’eliminazione fisica”. Al tempo della secca reprimenda contro “la deviazione sindacalista”, i toni si surriscaldarono.
Bisognava arginare il costituirsi attorno a Bucharin di una corrente-cuscinetto, a seguito di un rissoso Comitato centrale nel quale fu approvata una risoluzione – dichiarò Lenin – “dopo accanite discussioni, con dieci voti contro quattro”.
L’invettiva personale (“se, come il compagno Bucharin, sapessi fare le caricature, disegnerei Bucharin in questo modo: un uomo con un secchio di petrolio che versa il petrolio sul fuoco, e la didascalia direbbe: «Petrolio-cuscinetto»”) lasciava spazio a un segnale di disgelo: “Noi conosciamo tutta la dolcezza del compagno Bucharin, una delle qualità per cui lo si ama tanto e non si può non volergli bene”.
Lo stesso atteggiamento emergeva nel confronto piccato con Trockij. Non di rado Lenin si ritrovò in minoranza nella “gran baraonda del Comitato centrale”. Nel 1921 egli ammise: “L’Assemblea plenaria del Comitato centrale di dicembre ci è stata contraria. La maggioranza si è unita a Trockij”.
Prima ancora, nella Conferenza speciale di partito, Bucharin, con lo slogan della “guerra rivoluzionaria” contro la Germania, raccolse 32 voti su 63; la componente di Trockij (“né guerra né pace”) guadagnò 16 preferenze; il poco che restava sposò l’appello di Lenin per una “pace immediata”.
Quando sul rapporto partito-sindacato Trockij portò il suo dissenso al di fuori delle stanze del Comitato centrale, componendo un opuscolo assai polemico, Lenin disapprovò il gesto. Però non invocò sanzioni disciplinari: i partiti “per risolvere i conflitti non hanno bisogno del bastone del poliziotto”.
Se la prese duramente con “l’imprudente amico Trockij”, che si sottraeva alla partecipazione ad una commissione su incarico del Comitato centrale. Al congresso, però, replicò che “Trockij aveva il diritto di presentare una piattaforma frazionistica, sia pure contro tutto il Comitato centrale”.
Contrapponendosi ai gruppi della sinistra interna, i quali in aperta contestazione si rifiutarono di entrare nel Comitato centrale, Lenin ribatté con qualche ironia: “noi bolscevichi di destra”. Anche verso la “malsana corrente” della opposizione operaia, dopo la rampogna ecco il riconoscimento che la critica “ha qualcosa di sano”.
Dinanzi alla formula di Bucharin della “sacra parola d’ordine della democrazia operaia”, Lenin non rinunciò allo scherno: “per poco non mi sono fatto il segno della croce”. Altro che statuto divino del leader, Lenin veniva interrotto in pubblico, riceveva attacchi, e spesso si difendeva con rabbia o sarcasmo.
Non era un despota sciolto da vincoli, ma un leader di innovazione che manovrava entro un organismo plurale, a cui capitava anche di scusarsi perché nello stato di necessità aveva oltrepassato “il metodo sovietico” di direzione collegiale e “si è dovuto spesso decidere questioni spinose per telefono, e non in riunioni”.
Come capo di governo, Lenin lavorò con una eccezionale intensità. Redigeva con cura i documenti legislativi, scriveva decreti e relazioni, controllava i noiosi verbali emendandoli, parlava spesso in assemblee e congressi, incise vari discorsi su dischi o messaggi per la radio, dettò telegrammi, concesse molte interviste. Studiava i problemi approfondendo i punti nodali, e per questo suo stile pragmatico Hannah Arendt era certa che “il talento di Lenin come uomo di Stato predomina sulla sua educazione marxista e sulle sue convinzioni ideologiche”.
Al cospetto dell’asperità dell’agenda e della decisione, egli avvertiva il senso del limite di ogni bonapartismo verniciato di rosso. Ciò lo indusse a cogliere quanto complesso fosse il governo della trasformazione, giacché “questo compito è superiore alle forze di una sola persona”.
Invece che una figura mistica e divinizzata su cui ricama anche Figes, il profilo di Lenin è quello tipico di un rivoluzionario realista il quale ammette che “abbiamo dovuto procedere a tentoni” davanti al caos generale, dal piano internazionale a quello economico e militare, fino alle faccende più spicciole dell’amministrazione quotidiana e degli approvvigionamenti.
Un assillo accompagnava costantemente Lenin. La sua inedita organizzazione ha dimostrato capacità di resistenza, ma sempre “la guerra delle armi e dei carri armati cede il passo alla guerra economica”.
La sovranità di partito non dura, se il regime non assicura il consumo e perde la competizione per la produzione dei beni. C’è dunque bisogno di calcolo economico, di conoscenza, in quanto solo con la crescita, con le tecnologie è possibile soddisfare le nascenti rivendicazioni popolari: “così dev’essere, questo è il socialismo, quando ciascuno desidera migliorare la propria posizione, quando tutti vogliono godere dei beni della vita”.
Se in occidente il grande rivoluzionario parla una lingua dimenticata, e occorre dare ragione a Slavoj Žižek secondo cui “ripetere Lenin significa accettare che «Lenin è morto»”, a Pechino hanno invece drizzato le orecchie per apprezzarne ancora la musica.