L'archivio
Cosa vuol dire revisionismo, la parola proibita nel Pci
Era la parola proibita nel Pci. Il marchio. E il simbolo del revisionismo era Antonio Giolitti, uno dei cavalli di razza della scuderia di Togliatti
Editoriali - di Duccio Trombadori
Il 19 Luglio 1957 Antonio Giolitti si dimetteva dal Pci firmando una lettera alla Federazione del Partito di Cuneo, alla quale era iscritto: “…sono giunto alla grave e amara decisione di uscire dal PCI…attraverso un’esperienza profondamente meditata e sofferta…le tesi da me esposte vengono ormai additate come esempio tipico, e unico nel PCI, di ‘revisionismo senza principi’ e addirittura come concessioni consapevoli all’ anticomunismo… ma ciò che conta non è la polemica contro presunte mie posizioni ‘revisioniste’, bensì l’interpretazione del marxismo, del XX congresso e dell’ VIII congresso che emerge da quella polemica e si contrappone a ogni idea innovatrice e a ogni onesto tentativo di ricerca intorno ai gravissimi problemi aperti dal XX Congresso e dai fatti di Polonia e d’Ungheria. Per queste ragioni politiche e non certo per un puntiglio intellettualistico, io non posso più accettare una disciplina formale che significherebbe rinuncia a battermi per le idee e gli obbiettivi che ritengo oggi essenziali alla vittoria del socialismo…”.
Un anno prima, Giolitti aveva già motivato le ragioni del suo dissenso all’VIII congresso del PCI, dopo la denuncia kruscioviana del dispotismo di Stalin. In sintesi, egli sposava il riformismo marxista di Bernstein (“il movimento è tutto, il fine è nulla”) contro la dottrina della “dittatura del proletariato” di matrice leninista, propria dei partiti comunisti. Ne aveva dato conferma in un saggio dal titolo “Riforme e rivoluzione” che aveva dato luogo ad una sprezzante replica di Luigi Longo intitolata “Revisionismo nuovo e antico”. A quel punto seguì la scelta del distacco dal PCI che lo avrebbe visto entrare a far parte del PSI nella corrente autonomista di Pietro Nenni.
L’evento suscitò larga eco pubblica, in particolare turbò gli animi nel mio ambito familiare: per la vicinanza di mio padre e mia madre con la famiglia Giolitti (non solo con Antonio, ma anche con sua moglie Elena) con la quale avevo avuto anch’io dimestichezza, per le diverse festività natalizie passate assieme ai figlioli dei funzionari dirigenti di Botteghe Oscure (Ingrao, Onofri, Sereni, Pajetta, e tanti gli altri) tra i quali ricordo anche la sorridente Anna Giolitti…
Mio padre Antonello era rimasto più che turbato come tanti dalle rivelazioni di Krusciov sul dispotismo di Stalin, ed aveva certamente riconosciute per buone le motivazioni del dissenso di Giolitti. Ma giunti alla parola tabù –“revisionismo”- ricordo che egli si irrigidiva per fedeltà al Partito e non ammetteva cedimenti o repliche. In verità di tutte le animate discussioni che ad alta voce si incrociavano per casa mia, capivo ben poco (avevo appena 12 anni): ma ricordo i volti accesi e preoccupati, le esasperate manifestazioni di sconforto di tanti amici di mio padre che poi si allontanarono dal PCI: Tommaso Chiaretti, Mario Socrate, Tonino Guerra, Gianni Puccini, Bruno Corbi e perfino mio zio Gaetano Trombatore che, per avere firmato la “lettera dei 101”, per anni si vide togliere il saluto…
Ma per tornare alla parola tabù –“revisionismo”- un adolescente come me non poteva immaginare fino a qual punto fosse intesa quale diffamante epiteto in ambiente comunista: al punto che nessuno voleva esserne tacciato, nemmeno alla lontana, per le idee che esponeva.
Ne ebbi la conferma sempre in quei giorni del distacco di Giolitti, ascoltando mio padre Antonello impegnato nella solita discussione (Stalin, l’Urss, la democrazia, la libertà e il socialismo) col suo caro amico Giuseppe Mariano, che aveva passato anni a Radio Praga durante il Cominform, e con il quale si parlavano senza reticenze di dubbi ed ansie varie nel merito ideologico e politico.
A un certo punto, mosso dal desiderio di dire la mia su cose più grandi di me, ma su cui ritenevo di avere capito qualcosa, mi rivolsi verso “Peppe” Mariano –che consideravo uno di famiglia, ed era come se lo fosse- e gli dissi ammiccando: “secondo me tu sei un ‘revisionista’…!”. Non l’avessi mai detto. Peppe si rabbuiò, si sentì quasi ferito, poi mi chiese chi mi avesse detto di lui certe cose, perché quella di “revisionista” era una accusa grave. Così ingenuamente, mi sentivo di aver detto la mia senza dare grande importanza alla cosa.
Ma avevo tuttavia inconsapevolmente toccato un nervo scoperto. Parlare liberi da catene ideologiche, esprimere dubbi ed ansie sulle scottanti verità che le crepe del socialismo sovietico avevano messo in brutale evidenza, era comunque nel senso comune circolante nel PCI, un indizio di “revisionismo”. Indizio che, per certe mentalità, era prova di animo controrivoluzionario. Ma per altre era conferma di uno spirito di libertà che andava emergendo nella cultura e negli spiriti più indipendenti dello stesso mondo comunista. “Peppe” Mariano e mio Padre Antonello ne facevano parte. Ma anche loro subivano, inconsciamente, il ricatto psico-ideologico dell’anatema “anti-revisonista”…